domenica 25 settembre 2011

Swan Song, ovvero il fratello minore dello Scorpione


Ho ordinato Swan Song su Amazon, perché incuriosito dai ripetuti paragoni con The Stand (in Italiano L’Ombra dello Scorpione) di Stephen King. Per la verità, sono venuto a conoscenza con il libro in questione proprio sulla pagina wikipedia di The Stand dove si legge testualmente: “Swan Song, a later work of post-apocalyptic fiction by Robert R. McCammon that owes much to The Stand.” Andando a spulciare le recensioni su Amazon e Goodreads ho letto una serie di commenti entusiasti, e mi sono convinto ad acquistare questo malloppo di 850 pagine scritte fitte fitte.
Il riferimento di wikipedia non mente: Swan Song presenta molti parallelismi con il romanzo di King. In entrambi i libri un disastro di proporzioni apocalittiche spazza via gli Stati Uniti (e ,di conseguenza, il mondo intero. Come potrebbe il mondo sopravvivere senza stars and stripes, d’altronde?). I pochi sopravvissuti si riorganizzano in piccole comunità o gruppi itineranti per sopravvivere al crollo della civiltà, e un’entità dai connotati diabolici si “risveglia” per prender il controllo di quanto rimane dell’Umanità. Senza dubbio vi sono riferimenti ad altre opere di genere post-apocalittico, ma, vista la mia scarsa esperienza in materia (riconducibili al filone ho letto solo The Road, I Am Legend e Dhalgren), in questa recensione ci sarà un abuso smodato di riferimenti a The Stand.
Togliamo subito ogni dubbio: non ho trovato il romanzo di McCammon all’altezza del suo illustre termine di paragone. Il conflitto nucleare che provoca la totale devastazione degli USA, per come si sviluppa, risulta meno convincente e meno attuale di una bella pandemia alla Captain Trips. In questo senso non aiuta il fatto che il libro sia stato scritto nel 1986 e che la minaccia di una guerra Stati Uniti – Unione Sovietica sia ormai attuale e plausibile quanto il ritorno di Napoleone da Sant’Elena per reclamare il trono di Francia.  Questo non è l’unico problema. La guerra stessa viene gestita male. Nessuno dei civili ne è al corrente o sembra prevederla (beh, forse negli Stati Uniti questo è normale). Il conflitto vero e proprio si risolve tutto nell’arco di una giornata (forse anche meno): una gragnuola di missili a testata nucleare si abbatte sull’America – e per par condicio anche su Russia ed Europa – rasandola al suolo. Dinamica possibile, ma non troppo probabile a mio modo di vedere; da questo punto di vista lo scatenarsi della pandemia in “The Stand”, con i vani tentativi di confinarla e occultarne la portata da parte dell’esercito era risultata molto più verosimile.
In Swan Song i sopravvissuti – per lo più orribilmente sfigurati – si ritrovano sprofondati in una realtà da incubo: la flora è stata completamente spazzata via, una coltre di detriti e cenere avvolge l’atmosfera terrestre oscurando il sole e provocando un lungo inverno. Una situazione piuttosto tragica, eppure la gente riesce a sopravvivere per sette anni (!) in queste condizioni: quando c’è bisogno, legname e cibo in scatola sono sempre a portata di mano.
La storia ruota attorno a tre nuclei principali di personaggi. Il primo è composto da Swan, una ragazzina con il dono innato di far crescere fiori e piante (anche senza luce!), e Josh, un gigantesco nero con un passato da wrestler alle spalle. Il secondo è incentrato attorno alla figura di Sister, una donna dal passato drammatico che si risveglia a nuova vita quando, tra le rovine di New York, trova un misterioso anello di vetro e gioielli in grado di trasmetterle visioni. Del terzo fanno parte il colonnello Macklin, un reduce del Vietnam in preda alla tipica crisi di mezz’età, e Roland Cronninger, un ragazzo dall’aspetto sfigato ma dalla mente lesta con una passione per i computer (leggasi: nerd occhialuto con pulsioni sociopatiche). Per conto suo invece si muove l’Uomo dall’Occhio Scarlatto – aka il “Randall Flagg” di Swan Song – un messaggero di morte e disperazione venuto a danzare tra i resti fumanti della civiltà ridotta in cenere.
La caratterizzazione dei personaggi, sebbene non malvagia, manca di profondità. Anche in questo senso il paragone con King è impietoso per il malcapitato McCammon: i personaggi di The Stand avevano personalità autentiche e ben definite che li faceva emergere dalle pagine del libro. Buoni o cattivi che fossero, il lettore era trascinato dalle loro peripezie e scalpitava per scoprire quale destino li attendeva nella pagina seguente. Per le prime 600 pagine o giù di lì, non sono riuscito ad appassionarmi ai protagonisti di Swan Song e alle loro vicende. In un caso particolare, sono arrivato a detestare un personaggio, Sister, una donna così decisa a perseguire i propri scopi da non farsi troppi scrupoli nei confronti degli altri, soprattutto se aveva modo di usarli a proprio vantaggio (il trucco le riesce con Sheila Fontana, una prostituta del gruppo di Maclin). Josh, dal canto suo, è un bravissimo cristiano ma anche un completo idiota, e in un paio di occasioni riesce a cacciare se stesso e la malcapitata Swan – che in teoria dovrebbe proteggere – in un mare di guai facilmente evitabili.
L’appetibilità dei personaggi non risulta migliorata dalle crescite fibrose che, dopo la catastrofe nucleare, gli spuntano in volto. Queste specie di porri si espandono con il passare degli anni fino a coprire tutta la testa, lasciando libere solo delle piccole fessure per gli occhi e la bocca.
Non ho gradito poi l’abuso di elementi magici e soprannaturali – il potere di Swan con le piante, un cadavere che si rialza per raccomandare a Josh di proteggere Swan, l’anello trovato da Sister, un ago di cristallo che cicatrizza la ferita di un’operazione a torace aperto (!) – per i quali non viene presentata nessuna giustificazione credibile. Esistono semplicemente perché sono necessari alla storia, ma a mio modo di vedere stonano con un’ambientazione prettamente post-apocalittica. Anche King ne aveva fatto uso in The Stand, ma in maniera meno vistosa, coerente con lo spirito della storia.
In più di un’occasione ho provato un senso di fastidio verso e quanto stavo leggendo e ho dovuto resistere alla tentazione di posare il libro e prenderne un altro dalla mia voluminosa pila da leggere. Alla fine ho tenuto duro e la mia fatica è stata (almeno in parte) ripagata. Nell’ultima parte del libro, quando finalmente gruppi che si inseguono da anni si raggiungono e le schifose crescite fibrose vanno letteralmente in frantumi, la storia imbocca i binari giusti e il lettore si riscuote da quel fastidioso senso di torpore in cui era sprofondato.
Dopo essere raggiunta da Sister e il suo gruppo, Swan sboccia a nuova vita, proprio come il brutto anatroccolo della fiaba. Prende il mano il proprio destino e quello delle persone che le stanno intorno con un tempismo perfetto, perché i cattivi si profilano all’orizzonte. Il suo primo incontro con l’uomo dall’occhio scarlatto è uno dei punti migliori del libro, uno scontro di volontà gestito e risolto dall’autore in maniera ineccepibile. Da quel punto in avanti la narrazione procede a passo spedito verso il confronto finale, in cui ogni tassello va al suo posto in maniera fin troppo naturale.
[SPOILER]
Perfino l’odiata Sister risulta quasi simpatica nell’ultimo capitolo, quando finalmente tira le cuoia.
Il libro ci lascia con un messaggio di speranza, molto in linea con lo spirito ottimista degli anni ottanta. Il sole squarcia le nubi cineree dopo sette anni di tenebre e inverno; la Terra può ritornare alla vita, anche grazie a un piccolo aiuto da parte di Swan.
[FINE SPOILER]

Nel complesso, il finale positivo non è sufficiente a risollevare le sorti di un libro senza troppa personalità. Consigliato solo agli appassionati del genere.

martedì 20 settembre 2011

The Darkness That Comes Before e la bancarotta nichilista del Fantasy Contemporaneo


Lo scorso febbraio, Leo Grin aveva pubblicato questo articolo dal titolo The Bankrupt Nihilism of Our Fallen Fantasists, nel quale aveva espresso un personale e accalorato commento sulla scena fantasy contemporanea, confrontandola con l’opera di quelli che (peraltro giustamente) considera i due padri del genere: J.R.R Tolkien e R.E. Howard (e se costoro hanno bisogno di un’introduzione, allora forse vi trovate nel posto sbagliato: il sito che cercavate è questo).
Quanto è segue il succo del messaggio di Grin, leggermente rielaborato dal sottoscritto. “Dalle pagine dei due maestri, con la loro ricchezza tematica e prosa evocativa, riecheggiano miti e leggende del passato, latori di temi e valori senza tempo. Per contro, scrittori moderni quali Joe Abercrombie (The Firs Law Trilogy), Steven Erikson (Malazan Book of the Fallen) e George R.R. Martin (A Song of Ice and Fire), con il pretesto di portare una ventata di freschezza nel genere, stravolgono – a tutti gli effetti capovolgono – questi temi e valori, proponendoci realtà brutali e deprimenti, in cui si muovono personaggi dalla morale ambigua che, qualora messi alla prova, si dimostrano capaci di qualsiasi bassezza.”
Gli autori moderni vengono elogiati da pubblico e critica per il maggiore realismo dei loro mondi (concetto su cui torneremo), e in particolare per esporre senza vena poetica la follia, gli orrori e le passioni della guerra. Grin rifiuta categoricamente questa visione e nel suo j’accuse risponde (grossomodo) come segue: “Tolkien aveva iniziato a comporre il suo legendarium nelle trincee della Prima Guerra Mondiale mentre i suoi migliori amici venivano ad uno ad uno falcidiati dal fuoco nemico e forse ne sapeva qualcosa di più sulla guerra rispetto a questi signori che, per lo più, i conflitti li hanno solo letti sui libri o visti seduti davanti alla televisione.”
Al tempo della sua pubblicazione, l’articolo in questione aveva sollevato un certo polverone (o, più propriamente, un polverino) nel folto sottobosco del genere. Critici, autori e semplici appassionati avevano espresso la propria opinione, in difesa delle opere incriminate o a sostegno del nostro paladino della tradizione.

Perché questo lungo preambolo di folklore? Il romanzo d’esordio del canadese R.Scott Bakker, The Darkness That Comes Before, primo libro della trilogia The Prince of Nothing, è a buon diritto tra gli esponenti di punta del filone aspramente deplorato da Grin. Al contempo è anche l’emblematica prova che la distanza tra i “maestri” e “gli autori iconoclasti” è molto più piccola di quanto non sembri in apparenza.
Ecco, nelle parole dell’autore una breve introduzione all’ambientazione da lui creata, il mondo di Eärwa:
[INIZIO PICCOLO SPOILER]
“La Prima Apocalisse ha distrutto le grandi nazioni Norsirai del Nord. Solo a sud, le nazioni Ketyai dei Tre Mari, sono sopravvissute all’assalto del Non-Dio, Mog-Pharau, e della sua Consulta di generali e maghi. Gli anni sono passati e gli uomini dei Tre Mari hanno dimenticato, come gli uomini inevitabilmente fanno, gli orrori subiti dai loro antenati.
Imperi sono sorti e imperi sono crollati: Kyraneas, Shir, Cenei. L’ultimo profeta, Inri Sejenus, ha reinterpretato la Zanna, il più sacro degli artefatti, e in pochi secoli la fede dell’Inrithismo, organizzata e amministrata dai Mille Templi e dal loro leader spirituale, lo Shriah, arrivò a dominare l’intero Tre Mari. Le grandi scuole di stregoneria – quali le Spire Scarlatte, lo Shaik Imperiale e i Mysunsai, sorsero in risposta alle persecuzioni da parte degli Inrithi contro i Pochi, coloro che possiedono l’abilità di vedere e compiere stregonerie. Usando le Chorae, antichi artefatti che rendono i loro portatori immuni alla magia, gli Inrithi lottarono contro le Scuole tentando, senza successo, di purificare i Tre Mari.
Poi Fane, il Profeta del Dio Solitario, unì i Kianeni, i popoli dei deserti a sud-est dei Tre Mari e dichiarò guerra contro la Zanna e i Mille Templi. Dopo secoli e diverse jihad, i Fanim e i loro preti-stregoni senz’occhi, i Cishaurin, conquistarono quasi tutta la parte occidentale di Tre Mari, compresa la città santa di Shimeh, il luogo di nascita di Inri Sejenus. Solo i resti moribondi dell’Impero Nansur continuano a resistere (ai Fanim).
Adesso guerre e conflitti regnano nel Sud. Le due grandi fedi, Inrithismo e Fanimria (sic!) combattono senza posa, sebbene commerci e pellegrinaggi siano tollerati quando commercialmente conveniente. Le grandi famiglie e le nazioni competono per il dominio mercantile e militare. le Scuole grandi e piccole, bisticciano e cospirano, in particolare contro i misteriosi Cishaurin, la cui stregoneria non può essere distinta dal tessuto del Mondo. I Mille Templi perseguono ambizioni terrene sotto il comando di Shriah deboli e corrotti.
La Prima Apocalisse è diventata poco più di una leggenda. La Consulta, sopravvissuta alla morte di Mog-Pharau, è svanita nel mito, qualcosa che le vecchie raccontano ai bambini. Dopo duemila anni solo gli Studiosi del Mandato, che rivivono l’Apocalisse ogni notte in sogno attraverso gli occhi del loro antico fondatore Seswatha, ricordano gli orrori e le profezie del ritorno del Non-Dio. Sebbene i potenti e i sapienti li reputino dei buffoni, la loro capacità di utilizzare la Gnosi, la stregoneria dell’Antico Nord, incute rispetto e invidia mortale. Guidati dai loro incubi, i Mandati vagano per i labirinti del potere, perlustrando Tre Mari alla ricerca del loro antico e implacabile nemico – la Consulta.
E come sempre, non trovano nulla. ”
[FINE PICCOLO SPOILER]
Beh, se si sopravvive alla sequela di nomi impronunciabili sciorinata in questa presentazione, la prima impressione è di già sentito. Un antico nemico che minaccia di ritornare dopo la sua caduta in un mitico passato, unita a un’ambientazione fin troppo reminescenze delle crociate – le equazioni Inirthi=Cristiani, Mille Templi=Chiesa Cattolica, Shriah=Papa, Fainim=Mussulmani, Impero Nansur=Impero Bizantino balzano all’occhio – non sembra promettere il massimo dell’originalità. Ma, come spero di dimostrarvi, l’innovazione c’è e va ricercata altrove.

Bakker, laureato in Filososofia, si propone di iniettare una forte dose della materia dei suoi studi universitari all’interno della sua opera.
Anasûrimbor Kellhus (salute!), il protagonista – se tale si può definire – appartiene ai Dûnyain, un gruppo monastico che si è ritirato dal mondo al tempo dell’Apocalisse e da allora ha rinnegato lo studio della Storia, dedicandosi alla ricerca della Verità. Per fare ciò sono addestrati a conoscere e controllare “l’oscurità che precede” il pensiero, ossia il turbinio di irrazionalità, paure ed emozioni che guidano le azioni dell’Uomo. Kellhus, convocato attraverso il sogno da suo padre alla città santa di Shimeh, abbandona l’isolamento del monastero e “scende” nel mondo degli uomini a 33 anni, curiosa e non troppo casuale analogia con lo Zarathustra di Nietzche. Kellhus è a tutti gli effetti un Übermensch Nietzschiano: anni di studi monastici gli hanno conferito la capacità di leggere i volti delle altre persone come un libro aperto e intuire quali oscure forze muovono le loro azioni. Il nostro “protagonista” non si fa scrupoli a usare questa conoscenza a suo vantaggio, per piegare tutti gli altri, uno per uno, al suo volere.

[ SEGUE BREVE E INCOMPLETA TRAMA DEL ROMANZO]
Nello stesso anno in cui Kellhus lascia il suo monastero nelle desolate terre del Nord alla volta di Shimeh, nei Tre Mari viene proclamata una Guerra Santa da parte di Maithanet, il neoeletto Shriah le cui origini sono avvolte nel mistero, contro i Fainim. Scopo della Guerra Santa è proprio la riconquista di Shimeh.
Drusas Achamian, mago del Mandato tormentato da dubbi e incertezze, viene inviato dai suoi superiori a spiare i preparativi della Guerra Santa e a cercare come sempre un eventuale coinvolgimento della chimerica Consulta. Durante la missione Achamian ritrova Emenet una prostituta di cui era stato innamorato in passato, fa alcune scoperte sorprendenti su Maithanet e perde il suo migliore infiltrato nei Mille Templi . Sospinti dai venti di guerra, lui ed Esmenet si ritrovano entrambi diretti verso la capitale dell’impero Nansur dove avrà luogo l’adunata dei crociati.
Nel frattempo l’Imperatore complotta  per porre suo nipote, un brillante generale che ha fatto a pezzi le orde barbare del Nord-ovest, alla guida dell’esercito crociato. Il suo scopo è strumentalizzare la guerra santa per riconquistare i territori perduti e riportare l’impero ai fasti nel passato.
A nord, Cnaiür (e risalute!) un barbaro dalla ferocia e odio implacabile, dopo la sconfitta della sua gente, è rimasto con una sola ragione di vita: vendicarsi dell’uomo misterioso che, in gioventù, lo convinse a rinnegare e uccidere suo padre. Quando si imbatte in Kellhus, e riconosce in lui il figlio del suo antico nemico, acconsente ad aiutarlo a raggiungere Shimeh, nella speranza di ottenere finalmente l’agognata vendetta. Ben presto scopre con orrore che Kellhus è un manipolatore abile quanto il padre. Per tutto il viaggio in compagnia del Dûnyain, Cnaiür non potrà mai abbassare la guarda, per tema che il monaco gli rubi l’anima e lo manipoli come un burattino.
I due uomini, si dirigono verso Tre Mari e l’imminente Guerra Santa, per unirsi ad essa per raggiungere la loro meta: Shimeh.
[FINE TRAMA]

La storia si sviluppa con l’ormai consueta serie di misteri, intrighi e macchinazioni politiche, rese popolari nel fantasy da Jordan e (soprattutto) da Martin. Sebbene non possa competere a livello di complessità e numero di personaggi con il buon GeorgeRR (e chi può!), Bakker riesce a conferire egualmente sufficiente profondità al suo mondo e alla sua storia.
Le maggior parte delle vicende viene vista dalla mente dei personaggi, anzi sarebbe più corretto dire che si svolge nella mente dei personaggi. Bakker è capace di spendere diverse righe tra due linee di dialogo per esplorare i pensieri del suo Punto di Vista. Questa scelta, originale in un genere non troppo votato all’introspezione, non aiuta però a velocizzare il dipanarsi degli eventi, e per più di un lettore potrebbe risultare stucchevole. Personalmente l’ho trovato uno degli aspetti più godibili del libro.
In certe situazioni, gli eventi vengono riferiti in maniera confusa e frammentata, in accordo con la situazione emotiva del POV; altrove, diventa difficile stabilire cosa sia reale e cosa sia prodotto della mente e dei desideri del personaggio. È il vecchio trucco del narratore inaffidabile, usato con la dovuta maestria.
La mia parte preferita è stata il viaggio di Kellhus e Cnaiür nelle steppe alla volta di Tre Mari; qui Kellhus espone (alcuni) fondamenti della sua scuola e si adopera senza posa per irretire la mente del barbaro. Questi, già ingannato da giovane dal padre di Kellhus, cerca in tutti i modi di resistere alle manipolazioni del monaco. In passato molti autori sono riusciti ad irritarmi oltre misura quando il loro protagonista diventava così cazzuto da essere pressoché onnipotente. Esempi celebri sono Rand al’Thor de La Ruota del Tempo e Richard Rahl de La Spada della Verità, senza ombra di dubbio i due personaggi più insopportabili concepiti nell’ambito della letteratura fantasy. Bakker, dal canto suo, riesce a rappresentare il monaco Dûnyain in maniera convincente (almeno a mio parere), dando buone argomentazioni a giustificazione delle sue capacità. La sua spietata razionalità, il fatto che il suo vero scopo sia ignoto, unito alla profezia del “ritorno di un Anasûrimbor al tempo della Seconda Apocalisse” conferiscono mistero e timore attorno alla sua figura. Più che il possibile salvatore del mondo, sembra essere un freddo calcolatore, un bastardo sociopatico in grado di non far trasparire nulla del suo vero Sé.
Gli altri personaggi, moralmente parlando, non sono migliori. E qui arriviamo a una delle note dolenti del libro, oltre che a un punto di contatto con l’articolo di Grin: l’innegabile bastardaggine e assenza di morale di tutti personaggi. Per il lettore risulta molto difficile provare qualsiasi sentimento affine alla simpatia nei loro confronti, con la notabile eccezione (almeno per ora) di Achamian il mago, che però mi ha dato l’impressione di avere il marchio dello sfigato disegnato con un pennarello indelebile sulla fronte.
Tutti gli altri sono bastardi inveterati (nel caso degli uomini) o insaziabili meretrici (nel caso delle donne, puttane o concubine di professione); per inseguire i loro scopi (e le proprie perversioni) non perdono occasione di calpestare sotto i loro piedi qualsiasi codice morale e raggiungere nuovi livelli di bassezza. Va pur dato atto all’autore che i “cattivi”, per quello che si è visto ora, sono talmente abietti e fuori di testa da ridimensionare l’amoralità dei presunti “buoni”.
Da parte mia, preferisco l’assenza di morale che l’adozione di un codice etico deplorevole e distorto allo  scopo di giustificare le azioni dei propri personaggi (e in questo torniamo a La Spada della Verità, uno dei punti più bassi del genere).
Ho sentito diversi fan di Bakker (e anche di Steven Erikson, per quanto concerne la sua opera) sostenere che la visione bieca e cinica del mondo e degli uomini dipinta dall’autore conferisca un maggiore “realismo” alla serie. Può darsi. Da parte mia, pur sapendo quanto bieco e spietato sia il mondo in cui viviamo, devo ammettere che tra le mie conoscenze la percentuale di stupratori, assassini e prostitute è sensibilmente più bassa di quella rappresentata tra i personaggi di The Darkness That Comes Before. Con questo non voglio delegittimare la scelta di dipingere il proprio mondo a tinte fosche, ma non userei la foglia di fico del “realismo” per giustificarla. (Peraltro ci sarebbe tutta una discussione da fare sulla reale necessità di essere realisti in un romanzo fantasy, ma questa ve la risparmio per un’altra volta.)

Come dicevo in precedenza, la distanza tra gli autori della Vecchia Scuola e il buon Bakker è più breve di quanto Leo Grin voglia farci intendere. Oh, non mi fraintendete: molto probabilmente Tolkien sarebbe inorridito leggendo questa roba (se non altro per la cacofonia dei nomi). Ma credo avrebbe apprezzato l’immaginazione e l’originalità dell’autore, la cura minuziosa dedicata nel dipingere l’affresco di Eärwa (il cui nome riecheggia peraltro il tolkeniano Eä). La dedizione di Bakker verso il maestro si palesa in più di un aspetto – il presunto ritorno di un Signore Oscuro apparentemente sconfitto in precedenza (anche se i dettagli e la realtà dell’avvenimento restano tutti da appurare), la presenza di specie, Nonuomini e Sranc, per cui possono essere tratti diversi parallelismi con Elfi e Orchi – eppure non si tratta come spesso accade semplice riproposizione, ma una rilettura personale in accordo con una Weltanschauung bieca e spietata, in cui (da quanto emerso finora) si rifiuta qualsiasi morale universale e preconcetta.
Sebbene la mia attitudine mi porti a preferire ambientazioni più solari e nonostante qualche minore difetto comunque comprensibile nell’opera di un esordiente, il libro mi è piaciuto molto, tant’è che ho ordinato tutti gli altri volumi già usciti (per la cronaca sono quattro: due concludono la trilogia The Prince of Nothing, i successivi ne iniziano una seconda, intitolata The Aspect Emperor). Il libro è consigliato agli appassionati di worldbuilding e intrighi politici, purché non si spaventino davanti a una narrazione più introspettiva e a tratti disturbante.

P.S. Nonostante i nomi si ingarbuglino spesso e volentieri nel palato – anche grazie a un uso smodato uso di dieresi e accenti circonflessi – merita una menzione speciale il nome Golgotterath, la perfetta sintesi di Golgotha e Gorgoroth, con in aggiunta un pizzico di Gomorrah.

venerdì 2 settembre 2011

A Dance with Dragons: un'opinione


Ho finito di leggere A Dance With Dragons una decina di giorni fa; quale occasione migliore per inaugurare un non-blog di non recensioni?
In primis, mi permetto un commento sul titolo: lo reputo fuorviante, probabilmente “I Fantastici Viaggi per fiumi e per mare di Yollo (alias Hugor Hill)” sarebbe stato più appropriato.

Riassunto delle puntate precedenti:
Dopo aver sfornato tre libri che sfiorano il capolavoro (particolare menzione per il terzo A Storm Of Swords, ingiustamente privato del  premio Hugo nel 2001 dal pur bello Harry Potter and the Goblet of Fire), lo zio si è scoperto intrappolato all’interno del labirinto da lui stesso creato. La sua idea originaria – un “salto in avanti”di 5-6 anni tra la prima e la seconda trilogia per dare il tempo ai suoi personaggi di crescere – non poteva più funzionare, perché alla fine di A Storm Of Swords erano troppi i fili rimasti appesi per poter fare semplicemente finta di niente.
La soluzione scelta è stata quindi proseguire da dove ci si era fermati con il terzo libro, introducendo al contempo una pletora di nuovi punti di vista (POV, come dicono gli Anglamerofili), alcuni dei quali necessari alla “discesa in campo” di fazioni fino a quel momento rimaste un poco ai margini della storia principale (gli Uomini delle Isole di Ferro, i Dorniani).
Con il moltiplicarsi dei punti di vista, il libro di conseguenza si è gonfiato a dismisura, forzando Martin a dividerlo in due parti, A Feast for Crows, uscito nel 2005, e A Dance with Dragons attuale oggetto delle mie esternazioni.

Il nuovo libro scioglie solo in parte i dubbi sollevati dal suo predecessore. A Dance with Dragons, proprio come A Feast For Crows si muove con la letargica lentezza di un bradipo e non molto aiuta il ritorno dei nostri personaggi preferiti (per chi avese vissuto su Plutone fono a ieri mi riferisco a Jon Snow, Daenerys e Tyrion). I magnifici Tre fanno la parte del leone, spartendosi equamente metà del libro (35 capitoli su 70 o giù di lì), eppure sono proprio le loro vicissitudini a rallentare lo svolgersi degli eventi. Jon e Dany, invischiati nelle sempre più opprimenti beghe politiche dovute al loro ruolo, passano intere pagine a rimuginare su come procedere e in buona sostanza combinano ben poco. Tyrion si muove come una trottola (una trottola in slow motion, ma pur sempre una trottola) incontra parecchia gente interessante, eppure è proprio la sua storia ad avermi convinto meno di tutte.
[INIZIO PICCOLO SPOILER] 
Ma come, Varys lo spedisce come un pacco da Illyrio, questi lo rende parte della loro “piccola” cospirazione, e lui per neppure un momento è stupito o si pone domande al riguardo? Cioè, Varys è stato un certo senso il suo principale appoggio quando luii era la Mano del Re, e al contempo tramava di nascosto il ritorno dei Targaryen? Tutto questo non turba per nulla in nostro nano mezzonano. In secondo luogo, la storia del giovane Griff mi ha convinto ben poco, ma anche su quella Tyrion non si sofferma troppo a riflettere. E perché dovrebbe quando può fantasticare pagine e pagine su Tysha, il suo amore perduto, e sull’ultima celebre frase di suo padre, “Wherever whores go”(Senza fare menzione di una certa insopportabile nana e dei suoi animaletti da avanspettacolo)?
[FINE PICCOLO SPOILER]
Tutto è perduto quindi? Il vecchio Martino ha perso la bussola una volta per tutte? Niente affatto, perché nonostante la lentezza generale, le interminabili descrizioni di cibo e scopate, la ripetizione fino alla nausea di frasi quali “Words are wind” e “Said the crow to the raven”(questa in realtà è usata meno che in passato), le innumerevoli volte in cui il corvo di Mormont gracchia "corn" piuttosto che "snow", nonostante tutto ciò, il buon GiorgioRR rimane ancora una spanna sopra il 99% degli attuali scrittori di fantasy, soprattutto per la sua eccezionale caratterizzazione dei personaggi e per la capacità di evocare con le sue parole immagini vivide del mondo che descrive. Città e campagne, rovine e foreste  di Westeros ed Essos, e soprattutto i loro abitanti acquistano una profondità rara nella letteratura di questo genere, perché come è stato scritto su questo articolo pubblicato su Black Gate, la prosa Martin ha la capacità di stimolare tutti e cinque in sensi, di immergere il lettore nel suo mondo, di rendere reale e vivida la vita di tutti i giorni ad Approdo del Re, come a Mereen, sulla Barriera come su una barca placidamente in viaggio lungo il fiume Rhoyne.
Come dicevamo i presunti "tre protagonisti" non convincono, almeno per 3/4 della storia. E allora ecco che sono alcuni tra i personaggi minori, quelli con un numero ridotto di capitoli, a colpire maggiormente nel segno. Ho trovato particolarmente convincente la storia di “Reek” (indovina chi sarà mai?), la manciata di capitoli dedicati a Bran, e quella di un vecchio personaggio (sia anagraficamente sia come anzianità nella storia), che solo adesso assurge a POV. Oltre a questi, nell’ultima parte del libro la storia si riallinea e supera il punto in cui A Feast for Crows si era fermato. Così  rivediamo con piacere (tra gli altri) Arya e Cersei (in AFfC non la potevo soffrire), entrambe con due capitoli a testa che contribuiscono a portare avanti in maniera soddisfacente le loro vicissitudini da come le avevamo lasciate su A Feast for Crows.  Altri personaggi hanno capitoli meno salienti, ma comunque godibili.
È proprio sul finale del libro che Martin sembra improvvisamente risvegliarsi da un torpore durato una decina d’anni e inizia una buona volta a tirare le fila. Dopo tanto discutere, i personaggi iniziano ad agire e le nubi nere che da lungo tempo incombevano all’orizzonte sembrano pronte a scatenare la tempesta. Leggendo gli ultimi capitoli provo di nuovo quel senso di magia che tanto mi aveva incantato nei primi tre libri; finalmente, dopo lungo penare e peregrinare, le varie pedine hanno raggiunto la posizione desiderata e le conflagrazioni anticipate dall’inizio del libro possono avere inizio (non la Grande Conflagrazione Finale, per quella ci sarà da attendere ancora qualche libro alcune migliaia di leghe di viaggio). E proprio sul più bello, quando la storia inizia a crescere (si impenna azzarderei a dire) e il lettore sbava per scoprire come va a finire e quale sarà la sorte dei suoi beniamini, il buon GeorgeRR conclude il libro lasciando la bellezza di 4-5 situazioni da capogiro in sospeso . Scelta di mercato, semplice necessità dovuta alle dimensioni del libro o decisione già pianificata in precedenza? Ai posteri l’ardua sentenza; io, dal canto mio mi trovo con la prospettiva di aspettare altri 5 anni a tormentarmi di domande, in attesa di scoprire le sorti dei miei personaggi preferiti e non.

In conclusione, il libro mi è piaciuto o no? La risposta è un sì tendente al nì, o forse un nì tendente al sì. Non è neanche lontanamente paragonabile ai 3 libri storici, ma in ogni caso, rimane un libro scritto con classe (palati più fini forse direbbero mestiere) e la conclusione ci lascia ben sperare per il futuro. Non accade quello che mi sarei aspettato (non che sapessi davvero cosa aspettarmi), ma a libro concluso credo che per lo più la storia stia procedendo nella direzione giusta. Il tasto dolente resta il passo da lumaca: in questo senso, come molti prima di me hanno evidenziato, la Jordanizzazione (non nel senso delle matrici) di Martin è un dato di fatto, un evento orami difficilmente controvertibile.
Si ha una singola risposta alla lunga lista di interrogativi disseminati nei libri precedenti? No!
Si aggiungono nuove domande e ulteriori personaggi e POV? Certo che sì, con ulteriore complicazione della storia. Ci sono ben 4 nuovi POV in questo libro. A questo punto in The Winds Of Winter Martin si ritroverà a dover gestire 20 punti di vista sparsi tra Westeros ed Essos. Riuscirà a tirare le fila della storia in 2 soli libri, anche se della lunghezza di 1000 pagine ciascuno? Non lo credo possibile, anzi perfino l’ipotesi di 3 libri mi pare assai ottimistica.
Lettori armatevi di pazienza e (soprattutto di fede), pregate e accendete ceri affinché una lunga e prolifica vita sia garantita al nostro sosia preferito di Babbo Natale.

Ho scritto troppo per i miei gusti e poco e niente di quello che volevo davvero dire, magari la prossima “non recensione” sarà più sul pezzo.

A dopo.