giovedì 27 ottobre 2011

Rambling with Ramer: visioni oniriche da The Notion Club Papers, parte I



 
I've got a very Briny Notion
To drink myself to sleep.
Bring me my bowl, my magic potion!
Tonight I'm diving deep.
down! down! down!
Down where the dream-fish go.
(Sauron Defeated, pag. 224)



The Notion Club Papers – pubblicato in Sauron Defeated, il nono libro della serie The History of Middle-earth - è, a mio modo di vedere, una delle opere più complesse e affascinanti di J.R.R. Tolkien. Una sinfonia incompiuta, come la stragrande maggioranza dei lavori del Professore.
I Papers furono scritti tra la fine del ’ 44 e il ’46, in un periodo in cui il JRRT aveva messo da parte Il Signore degli Anelli pur essendo già arrivato a redigere i primi capitoli de Il Ritorno del Re.
I Notion Club Papers sono molte cose allo stesso tempo: da un lato, sin dal nome, rappresentano un tributo scherzoso agli Inklings, il gruppo informale di letterari di cui Tolkien e C.S. Lewis facevano parte. Dall’altro, rappresenta il secondo tentativo, da parte del Professore, di scrivere un romanzo fantastico – di fantascienza, se vogliamo, visto che è ambientato nel biennio 1986/87 - basato sul Viaggio nel Tempo. L’idea era nata in origine diversi anni addietro, nel 1937, quando Tolkien e Lewis, insoddisfatti dallo scarno numero di libri fantastici loro gradimento, si erano ripromessi di scriverne uno a testa. Era stato stabilito che Lewis avrebbe scritto un’opera basata sul viaggio nello Spazio, mentre il soggetto di Tolkien sarebbe stato, appunto, il viaggio nel Tempo. Ma, mentre il romanzo di Lewis, Out Of The Silent Planet, vide effettivamente le stampe nel 1938 e diede origine alla Space Trilogy, quello di Tolkien, dal provvisorio titolo The Lost Road, si arenò dopo una cinquantina di pagine. Il tema portante del romanzo, la caduta di Atlantide-Númenór, una isola leggendaria situata a “occidente” del mondo degli uomini, a metà strada tra questo mondo e il paradiso terrestre, diventerà una degli elementi mitologici a sfondo del Signore degli Anelli.
Tolkien aveva abbandonato The Lost Road perché insoddisfatto di come si stava sviluppando, ma l’idea di fondo rimase in qualche anfratto della sua mente, e tentò di riproporla, in veste diversa, nella Seconda Parte dei Notion Club Papers.
Introdotti da una prefazione che sa tanto di scherzo (o nonsense) [1], i Notion Club Papers sono costituiti da due parti distinte: The Ramblings of Ramer e The Strange Case of Arundel Lowdham. Anche se in seguito, Tolkien rigettò questa suddivisione, il figlio Christopher decise di mantenerla nella versione pubblicata e se ne può ben capire il motivo.
Le due parti, pur essendo entrambe incentrate sullo stesso gruppo di persone, affrontano due tematiche profondamente diverse e possono per questo essere esaminate come due segmenti separati.

I membri del Notion Club, rappresentati (non troppo fedelmente, per la verità) da  Afalstein.
 In prima fila da sinistra: Nicholas Guildford, Arundel Lowdham, Michael G. Ramer, Wilfred T. Jeremy
In seconda fila: Alexander Cameron, un intruso, Rupert "Rufus" Dolbear e un altro intruso
In particolare, per quelli che sono gli scopi di questa breve disamina, è mio interesse focalizzarmi solo sulla prima parte dell’opera, il resoconto degli esperimenti onirici di Nicholas Ramer. Lo faccio per diverse ragione. Innanzitutto perché la seconda parte si ricollega, come già detto, al mito di Númenór-Atlantide e ripropone i temi già affrontati da Tolkien in precedenza – nell’incompiuto The Lost Road -  e in parte riproposti, seppur in contesto differente, all’interno de Il Signore degli Anelli. A questa seconda parte si accompagna un'altra serie di scritti The Drowning of Anadûnê, un resconto della caduta di Númenór fondato su una cosmogonia leggermente diversa da quella considerata canonica. Tutti questi documenti sono stati analizzati con dovizia di dettaglio da Christopher Tolkien e non vedo come potrei aggiungere qualcosa di cui lui non potesse essere al corrente.
Il resoconto inizia dalla sessantesimo appuntamento del gruppo.. Ramer ha appena terminato la lettura della sua ultima opera e chiede ai presenti un giudizio. Guildford, il cronista degli incontri, evidenzia come abbia notato una stonatura, una discrepanza tra la storia in sé – ambientata, a quanto si deduce, in un pianeta lontano di nome Emberü – e la sua cornice, riferendosi in particolare al viaggio compiuto dal protagonista per giungere dalla Terra su Emberü. Ne nasce una discussione sui viaggi nello Spazio e sulla loro credibilità scientifica e letteraria. Ramer – alter-ego di Tolkien, in questo e molti altri aspetti – afferma di trovare insoddisfacenti buona parte delle soluzioni “tecnologiche” adottate dagli autori di fantascienza per superare le distanze cosmiche e i limiti imposti dalla velocità della luce e dal corpo umano. La Scienza, egli afferma, restringe le possibilità in questo senso piuttosto che ampliarle.
Guildford evidenzia come la “macchina” utilizzata determini il tono della storia. Le navi spaziali porteranno solo in posti dove si troveranno cannoni laser e veicoli supersonici:
“Non c’è bisogno di viaggiare con un razzo  per trovare a Faërie. Può trovarsi dovunque, e in nessun luogo.” (SD, 170)
La strada per Faërie è stato uno dei temi nodali nell’opera tolkeniana dai suoi primi tentativi di scrivere una mitologia per l’Inghilterra (Racconti Perduti, composto nel 1916-17), fino all’ultimo lavoro pubblicato in vita, la fiaba Fabbro di Wootton Major. Non serve un razzo per raggiungere la terra degli Elfi, eppure solo pochi scoprono  “il sentiero segreto che porta ad ovest del Luna e ad est del Sole”, come lo chiama Frodo, nell’ultimo capitolo del Signore degli Anelli. Ci riescono Frodo e Bilbo, prendendo la nave che li condurrà per sempre lontano dalle coste della Terra-di-mezzo; ci riesce Eriol/Ælfwine – amico degli Elfi, appunto – marinaio anglosassone naufragato a Tol Eressea in Racconti Perduti; e ci riesce Fabbro, grazie a un magico lasciapassare ricevuto in dono da bambino e a cui dovrà rinunciare sulla soglia della vecchiaia.
Una strada differente viene illustrata nei Notion Club Papers. A indicare il sentiero è Rupert Dolbear, chimico appassionato di filosofia e psicanalisi,  in un certo senso l’equivalente di Gandalf all’interno del Notions Club. Nel bel mezzo della discussione su viaggi spaziali, egli torna a porre l’attenzione sul tema di partenza, ossia la dissonanza tra il viaggio iniziale e la destinazione dove la storia si sviluppa e evidenzia come sembrino scritte da due persone diverse.
Dolbear attribuisce a Ramer solo scrittura dei primi capitoli, mentre il resto della storia, dice, non è stata da questi inventata, quanto piuttosto sperimentata. In altre parole vissuta. Quindi, ingiunge a Ramer di spiegare dove si trovi Emberü e come vi sia arrivato. Ramer dice di non sapere dove si trovi, ma ammette di esserci stato. Di fronte all’incredulità dei presenti, ai quali non era sfuggita una certa stranezza nella storia, troppo vivida per essere frutto della sola immaginazione, Ramer promette di spiegare tutto all’appuntamento della settimana successiva.
La notte 61 è interamente dedicato al resoconto di Ramer. Egli, afferma ha sempre desiderato esplorare la possibilità, almeno da un punto di vista letterario, di viaggiare nel Tempo e nello Spazio, ma senza l’ausilio di alcun veicolo fisico (sulla cui inadeguatezza concorda con Guildford). Questo desiderio, unito al suo interesse per i sogni, su come si sviluppino e quale possa essere la loro relazione con la creatività cosciente, lo spinse a ritenere che il Sogno poteva essere un “veicolo” plausibile per consentire alla mente di superare le barriere del Tempo.
Ramer definisce questi sogni, in cui l’agente “percepisce” e “sperimenta” un Luogo e un Tempo diverso da quello dove il suo corpo si trova, come Sogni Veri e ammette che sono un evento piuttosto raro. L’evento pero, riteneva, poteva essere favorito dall’utilizzo di un opportuno veicolo per la mente.
“La mente usa le memorie del proprio corpo. Non potrebbe utilizzare anche altri ricordi, o per meglio dire resoconti? Che genere di resoconti di eventi passati si potrebbero utilizzare e quale forma dovrebbero essi avere?” (SD, 177)
Ramer racconta di avere sperimentato diverse forme di addestramento per raggiungere la concentrazione e ottenere tranquillità, liberandosi dai rumori del corpo e del mondo esteriore. Una volta raggiunta questa capacità, aveva cercato di usare la sua mente per ispezionare, o in qualche modo acquisire consapevolezza delle memorie contenute in certi oggetti. L’esperienza si era rivelata lenta e difficoltosa, soprattutto con forme prive di vita organica.
Nonostante gli scarni progressi nelle sue “ispezioni”, aveva notato come queste sembravano influenzare i suoi sogni. In questi aveva percezioni sfumate e confuse di elementi estranei ai suoi sogni abituali, e sebbene faticasse a memorizzare queste sensazioni, ricordava visioni di motivi geometrici in moti caleidoscopici e altre impressioni sensoriali affini a ritmi quasi musicali o sensazioni somatiche e di pressione
Tutto questo però non lo aveva ancora aiutato a raggiungere il suo scopo iniziale: scoprire un “veicolo” per lasciare la Terra. Per questa ragione decise di ispezionare un corpo di origine celeste, sufficientemente integro da conservare potenziali ricordi e impressioni dallo spazio profondo: un meteorite, esposto in un parco pubblico. Il tentativo portò scarsi risultati, poiché il luogo di giorno era troppo frequentato per raggiungere la concentrazione necessaria e di notte era chiuso al pubblico.
Nel frattempo continuò a sperimentare strani sogni ed esperienze oniriche, alle volte dolorose e allarmanti: sensazioni di Peso, Velocità, Fuoco, Spazi Immensi e di Tempo. Percezioni immani e terrificanti, estranee all’esperienza umana.
Per questo tornò a dedicarsi all’ispezione dei sogni, in particolare quei sogni più profondi, meno legati a sensazioni fisiche. Alcuni di questi, riteneva, facevano parte di sequenze di sogni ripetuti, e sembravano dotati di un significato o un’emozione che la mente umana non era in grado di ricordare una volta sveglia.
Fu in questo modo che sperimentò il suo primo risveglio nel mondo del sogno, quello che oggi noi definiremmo un sogno lucido. Ramer descrive il fenomeno come l’opposto di quando uno si sveglia di soprassalto e percepisce il sogno appena vissuto come andare in frantumi e inutilmente tenta di riconnetterne le memorie e le sensazioni:
“Ero sveglio a letto e caddi in un sonno profondo, improvvisamente e violentemente (…). Mi immersi attraverso diversi livelli e un turbinio di forme e scene fino ad avere una sequenza connessa e memorizzata. Potevo ricordare tutti i sogni che avevo avuto di quella sequenza (…). E il ricordo non svanì quando mi svegliai e non è più svanito. (…) Da allora ho rivisitato molte altre sequenze e adesso ricordo un gran numero di sogni seri e liberi, i miei sogni profondi.” (SD, 184)
Con la ricostruzione di sequenze complete (strutturate), i piccoli frammenti che Ramer era riuscito a ricordare in precedenza diventano tasselli in un mosaico più grande e il loro significato appare quasi manifesto. Dopo aver fornito un paio di esempi a questo riguardo e i loro legami con alcune storie che aveva scritto e dimenticato anni addietro, Ramer espone alcune immagini dal significato mitico o simbolico. Ed è in questi punti, nella capacità di evocare in poche righe, visioni cosmogoniche e mitiche, emerse da luoghi lontani nello spazio e nel tempo che riconosciamo il miglior Tolkien.
“Ecco alcuni dei miei frammenti di questo genere. C’è un trono vuoto sulla sommità di una montagna. C’è un’Onda Verde, dalla cresta bianca, flautata e increspata ma immensa che torreggia sopra verdi campi, spesso anche con alberi o boschi; questa mi è apparsa costantemente. Ho visto diverse volte una scena in cui un’ampia pianura si estende davanti ai piedi dell’erto precipizio su cui mi trovo; il cielo di fronte a me è immenso, sale come un muro verticale, non si curva come una cupola, e rifulge di stelle sparpagliate in maniera irregolare su tutta la sua estensione. Questo è un monito, o il presagio di una catastrofe. Una forma scura a volte si muove attraverso il cielo, visibile solo per l’occultarsi delle stelle al suo passaggio. Poi c’è un’alta torre, grigia e circolare su uno strapiombo alla fine della terra. Il Mare non può essere visto, perché è troppo in basso, incommensurabilmente lontano, ma si può avvertire il profumo. E ancora e ancora di nuova, in molti stadi di crescita e in molte differenti situazioni di luce ed ombra, tre alti alberi, slanciati, uno a fianco all’altro su un tumulo verde, coronati con un alone avvolgente dai colori blu e oro.” (SD, 194)
È possibile, anche se non sempre immediato trarre alcuni paralleli tra le visioni descritte da Ramer e il legendarium tolkeniano: il trono sulla montagna potrebbe essere il Trono di Manwë sulla sommità di Taniquetil; l’Onda Verde è per certo un elemento ricorrente nei sogni di Tolkien stesso e lo stimolo originario allo sviluppo della caduta di Númenór-Atlantide, il tema principale della seconda parte dei Noiion Club Papers. I tre alberi su un colle verde rimandano ai due Alberi della Luce, a Valinor. Altre immagini non sono così facilmente riconducibili e, probabilmente, nessuna associazione esplicita è da intendersi:
“E che cosa pensi che tutto ciò significhi?” domandò Franley,
“Mi ci è voluto un po’ di tempo, fin troppo, per spiegare la storia marginale del bibliotecario” disse Ramer. “Non potrei imbarcarmi oggi in anche solo una delle immense e ramificate leggende e cosmogonie a cui queste appartengono.” (SD, 194)
 Dopo una discussione sulla possibilità di entrare in contatto, durante il sogno, con altre menti o spiriti senzienti e sulla possibilità che alcuni di essi possano avere intenzioni malvagie, Ramer ritorna al filo iniziale, ossia l’utilizzo del Sogno per esplorare luoghi al di là della Terra, e di come ottenne l’ispirazione per scrivere il racconto ambientato ad Emberü letto all’incontro precedente.
Ramer spiega come abbia visitato diversi corpi celesti, tra cui Emberü il Verde, attraverso altre menti, oppure servendosi di altri mezzi e ricordi; non esclude la possibilità di aver usato come veicolo la luce stessa. Descrive tre di questi mondi: Emberü il Verde, abitato da un sorta di vita organica sana e dalla lunga vita; Ellor Eshúrizel, un immenso piano argentato disseminato di forme inanimate disposte in strutture ordinate, simile a un giardino di natura inorganica, ricco di colori e percorso da grandi corsi d’acqua e cascate maestose. Ramer fa un accenno ai misteriosi En-keladim, che ritiene risiedano su Ellor. L’ultimo mondo descritto è Minal Zidar il dorato, silenzioso e dalle forme perfette, imperituro nel Tempo. Ramer non è in grado di stabilire, dove e quando siano situati i mondi da lui visitati, anche se ritiene siano ben al di confini del Campi di Arbol (il nome usato per descrivere il Sistema Solare da C.S. Lewis nella sua Trilogia Spaziale).
Segue una discussione sulla comunicazione verbale proveniente da esseri incorporei. Ramer ritiene che il linguaggio possa essere prodotto solo da esseri incarnati (e in questo molti studiosi di intelligenza artificiale sono pronti a dargli ragione), mentre la comunicazione da entità spirituali è interpretata dall’impressione (non illusione!) sensoriale del ricevente.
Le esplorazioni astronomiche non sono un evento frequente nei sogni lucidi sperimentati da Ramer, e sono per lo più guidate dal suo desiderio. Altri desideri, forse non legati alla sfera cosciente, lo hanno portato altrove. Cita il mito di Atlantide e l’Onda Flautata, suscitando la curiosità di Arry Lowdham (anticipando così, sia pur con un solo accenno, il tema principale della seconda parte dei Papers) e nuovamente gli En-keladim, creature affini agli Elfi nella loro radiosa nobiltà, sebbene, a differenza di questi ultimi, siano puri spiriti non vincolati a un corpo a meno che non desiderino indossarne uno.
In conclusione Ramer descrive il viaggio a Tekel-Mirim, la terra di cristallo, dove la materia inanimata si muove e cresce costantemente in nuove conformazioni cristalline, piramidi e poliedri dalle molteplici forme. Racconta di esserci stato più volte, e che una notte, recedendo con una velocità irresistibile dalla visione di Tekel-Mirim si ritrovò ad osservare dall’alto un paesaggio in tumultuosa evoluzione, prima tormentato da vapori e sommovimenti della terra e del mare, poi invaso da una crescita forse vegetale e forse fungina e infine popolato da una sorta di creature “affini a formiche”, sempre in movimento, costantemente intente a costruire nuove ed orribili abitazioni. Pian piano la scena rallenta e Ramer si rende conto di stare osservando un paesaggio familiare dall’alto: la scena a cui aveva assistito, e che tanto lo aveva ripugnato dopo l’esperienza di Tekel-Mirim, era stata una visione ad alta velocità della valle del Tamigi e di Oxford da prima della comparsa della vita fino al momento stesso in cui il sogno si sta svolgendo. Nel sogno Ramer sente le campane della chiesa suonare le 7 di mattina e si sveglia. E con questo termina il resoconto delle sue esperienze oniriche e la prima parte dei Papers.
Che cosa dire in conclusione di The Ramblings of Ramer. Innanzitutto che si tratta di una lettura eccellente ed estremamente originale nel tema esposto, anche se la materia trattata non è leggera e facilmente farebbe scappare il lettore in cerca di un ordinario romanzo fantastico (o anche solo di narrativa in generale). Il lettore paziente, d’altro canto, soprattutto dopo una seconda lettura, non potrà che rimanere affascinato dalla maestria con cui Tolkien descrive l’esperienza di Sogno Lucido e come riesca in poche righe ad evocare visioni convincenti di mondi lontani. Una particolare menzione va data, alla scelta dei nomi, sempre azzeccata (come d’altronde è naturale attendersi da un filologo appassionato di linguaggi inventati). Nel testo, una lunga riflessione viene dedicata all’origine di questi nomi se appartengano a lingue aliene o se siano stati reinterpretati dal gusto e dalle facoltà di Ramer. Non è infrequente, almeno per mia esperienza, che nei sogni alcune parole vengano percepite e rimangano come marchiate a fuoco nella mente, almeno negli istanti subito dopo il risveglio. Nel mio caso però sono sempre parole in lingue che conosco (Italiano, a volte Inglese).

Il quesito principale sollevato da The Ramblings Of Ramer è se Tolkien stia facendo solo un gioco di fantasia o se stia invece esponendo qualcosa di più personale, una tecnica da lui stesso utilizzata per rivivere alcuni sogni ricorrenti, quale il Sogno della Grande Onda. E, in caso affermativo, quanto queste sue esplorazioni oniriche possono avere influenzato lo sviluppo del suo legendarium e del Signore degli Anelli.
Vari artisti, nei campi più disparati hanno fatto ricorso a tecniche quali sonno, meditazione, o più comunemente droghe, per stimolare la loro vena creativa. Lovecraft stesso, scrisse diversi racconti, dopo averli sperimentati in sogno, e Stephen King ha rivelato in questa intervista  di aver usato idee  tratte dai suoi sogni in alcuni romanzi, tra cui Misery.
Visto che Tolkien era anche un Cattolico praticante, sarebbe interessante sapere quanto queste sue esperienze potessero essere legate a forme di preghiera o meditazione, sebbene di queste dovrebbero avergli procurato visioni ed esperienze di genere differente. Egli, sempre attento a non mischiare narrativa e religione, si sarebbe ben guardato da riferirle in una sua opera letteraria.
Christopher Tolkien, in Sauron Defeated,  si astiene dal fornire commenti su The Ramblings of Ramer, ad eccezione delle note che accompagnano il testo e che per lo più spiegano il significato di nomi, riferimenti ad altri romanzi (soprattutto la già citata Trilogia Spaziale di Lewis) e anche alcuni giochi di parole.
Non entro in questo libro in qualsiasi discussione critica degli argomenti e le questioni sollevate in The Ramblings of Michael Ramer. Ciò è in parte perché non sono qualificato per discutere di loro, ma anche perché cadono in qualche modo fuori della portata e lo scopo di The History of Middle-earth, che è soprattutto presentare testi accurati e accuratamente ordinati (per quanto ne sono capace) e spiegarli comparativamente, all'interno del contesto della Terra-di-mezzo' e delle terre d'Occidente. Con il  limitato tempo a mia disposizione per questo libro ho pensato che avrei potuto meglio dedicarlo in ogni caso a chiarire la complessità del materiale 'Númenóreano'. (SD, 152)
Viene spontaneo domandarsi se le reticenza di Tolkien jr. sia in qualche modo dovuta al potenziale riferimento del padre a fatti ed esperienze personali, riferiti attraverso la bocca di Ramer. Difficilmente, a questo punto, il dubbio verrà sciolto.
A quanto pare, Verlyn Flieger, studiosa di mitologia comparata e celebre tolkienista  ha dedicato una particolare attenzione a The Notion Club Papers nel suo A Question of Time. Quando avrò occasione di leggerlo, magari posterò alcuni aggiornamenti sull’argomento.

Note:
[1]  - I Papers veri e propri sono preceduti da un’introduzione che sa tanto di scherzo: è scritta da un immaginario curatore, un tale Mr. Green, che afferma di aver trovato questi resoconti nel 2012  in un archivio di Oxford. Le carte riportano i dettagli di una serie di incontri di un circolo letterario chiamato appunto “Notion Club”, attivo a metà degli anni ’80. I nomi degli affiliati sono elencati di seguito con una breve descrizione di ciascuno dei membri. Tuttavia il signor Green non è sicuro della genuinità dell’opera: essa è stata scritta su carta usata negli anni quaranta (ai tempi della Guerra dei Sei Anni, come egli la chiama) e lo stile della prosa è più facilmente riconducibile a quel periodo. Inoltre, nessuno dei membri del club risulta essere vissuto a Oxford negli anni Ottanta. Il tutto farebbe pensare a un’opera di fantasia scritta da qualche buontempone a metà anni Quaranta, se non fosse che alcuni eventi storici successivi, come la Grande Esplosione del 1975 e la Tempesta del 1987 vengono riportate fedelmente e sono anche parte integrante nelle vicende esposte della Seconda Parte. Green si sente propenso a ritenere i Papers un lavoro di fantasia, anche per la materia trattata.

martedì 4 ottobre 2011

Il gioco di Katniss: The Hunger Games


Una quindicina di anni fa, tra le produzioni della Sergio Bonelli Editore c’era una collana chiamata ZONA X. Nata come uno spin-off di Martin Mystère, rappresentava a quei tempi una delle poche escursioni nel fantastico del fumetto italiano (almeno per quanto ne sapessi io, povero liceale ignorante). Ogni uscita conteneva due storie: alcune appartenevano a mini-serie (di cui ricordo Magic Patrol, Robinson Hart e i Cavalieri del Tempo e La Stirpe di Elän, quest’ultima l’unica prettamente heroic fantasy), altre erano episodi autoconclusivi. Uno di questi ultimi, pubblicato nel numero 19, si intitolava La Caccia ed era ambientato in un futuro a tinte cupe non troppo distante, in cui lo spettacolo televisivo più popolare è una caccia all’uomo svolta all’interno di un’arena con una particolare ambientazione storico-geografica. I cacciatori erano un gruppo di mercenari professionisti, mentre ogni settimana una preda veniva sorteggiata tra l’intera popolazione mondiale. I cacciatori avevano un’ora di tempo per stanare e uccidere la loro preda; quest’ultima, per ogni minuto di sopravvivenza, guadagnava una somma di denaro che, in caso di morte sarebbe stata elargita alla sua famiglia.
La trama della storia non era poi del tutto originale presentando tra l’altro molte analogie con L’Uomo in Fuga (The Running Man) di Stephen King, uscito nel lontano ’82. Tuttavia l'efficacia della storia e una protagonista femminile dalla personalità forte sono rimaste sepolte nella mia mente per una decina d’anni, per tornarmi in mente mentre leggevo The Hunger Games.
Dubito però che Suzanne Collins, l’autrice di The Hunger Games, abbia mai letto ZONA X. Più probabilmente potrebbe aver preso qualche spunto da The Running Man e da un’altra manciata di libri/film distopici la cui storia gira intorno a un reality show cruento. In ogni caso, la sua storia i  questione ha sufficiente personalità da non dover temere eventuali paragoni (che sono il mio forte, come avrete notato dalle mie precedenti recensioni).
[SEGUE SINOSSI CON QUALCHE SPOILER]
In un futuro non troppo distante, il tirannico stato (non lo definirei totalitario) di Panem è sorto sulle rovine di quello che era il Nord America. Panem è costituito da una ricca Capitale, chiamata per l’appunto Capitol, e dodici distretti in condizioni di povertà più o meno marcate. È facile intendere che buona parte della ricchezza della Capitale è dovuta allo sfruttamento delle risorse dei dodici distretti. Settantacinque anni prima questi ultimi si erano ribellati al giogo dello stato centrale e dopo una guerra lunga ed estenuante erano stati sonoramente sconfitti. A perenne memoria dell’umiliazione subita allora – come accadde agli Ateniesi nei confronti di Minosse – ogni anno ciascun distretto deve fornire un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni, affinché partecipino a un reality show dal nome “Hunger Games”. I due fortunati vengono estratti a sorte in un’assemblea pubblica soprannominata “mietitura”. Lo spettacolo in questione, il più popolare di tutta Panem, si svolge all’interno di un’arena e prevede una lotta senza tregue e all’ultimo sangue tra i ventiquattro partecipanti. L’ultimo sopravvissuto verrà proclamato vincitore e potrà godere di una vita di agi e privilegi.
Katniss Everdeem è una ragazza di 16 anni del Distretto 12, il più povero di tutta Panem. Suo padre è morto durante un’esplosione all’interno delle miniere di carbone quando lei aveva solo undici anni, e da allora Katniss ha dovuto provvedere alla sopravvivenza di sua madre – caduta  in uno stato di depressione a causa della morte del marito – e della sorella più piccola, Primrose.
Insieme all’amico Gale Hawthorne, ogni giorno scavalca il recinto spinato che delimita il Distretto e si reca nei boschi a cacciare di selvaggina, bacche e funghi. Da suo padre ha ereditato la capacità di muoversi nel bosco con la grazia di un felino e una precisione chirurgica con l’arco. Grazie alla sua attività di bracconaggio, la sua famiglia è riuscita a condurre una vita dignitosa. Katniss ama sua sorella Prim sopra ogni cosa e farebbe di tutto per tenerla al sicuro. Così, quando alla sua prima “mietitura” (e che sfiga!) Prim viene sorteggiata, Katniss non ci pensa due volte a offrirsi volontaria al suo posto. Insieme a lei viene estratto Peeta Mellark, il figlio del fornaio. Anni addietro Peeta le aveva regalato di nascosto due forme di pane nel peggiore periodo di miseria dopo la morte del padre e per questo Katniss sente ancora di avere un debito nei suoi confronti. Un debito oneroso, se l’occasione di saldarlo si presenterà nell’Arena, dove la morte di uno può significare la vita dell’altro.
Nel viaggio in treno tra il distretto e la Capitale, i due ragazzi riescono a guadagnarsi la stima di Haymitch e, con l’aiuto di un’abile squadra di stilisti riescono a fare colpo durante il periodo di presentazione in preparazione ai Giochi. Katniss impressiona gli Organizzatori per il suo temperamento. Peeta dal canto suo, spiazza tutti, quando nell’intervista televisiva alla vigilia dell’ingresso nell’Arena lascia chiaramente a intendere di essere innamorato di Katniss da quando era bambino. Un dubbio sorge spontaneo: è una confessione genuina o solo una mossa per guadagnarsi la simpatia del pubblico e degli sponsor? La risposta – per quanto abbastanza palese sin dall’inizio – si avrà soltanto nell’arena dove ognuno dovrà lottare per la propria sopravvivenza.
[FINE SINOSSI]
Due particolarità saltano all’occhio dello stile usato da Suzanne Collins in The Hungers Games. La prima è la narrazione in prima persona (da punto di vista di Katniss), tutta svolta al tempo presente. La seconda è la totale assenza di soluzione di continuità nella narrazione: ogni capitolo ha inizio precisamente nell’istante in cui il precedente si è concluso. Questa scelta conferisce alla storia una struttura fluida, senza un reale momento di pausa per il lettore, che fatica a trovare il punto migliore per posare il libro e preferirebbe avere il tempo di mandarlo giù tutto d’un colpo, come una bella tequila con sale e limone.
La Collins gioca abilmente con il triangolo Katniss-Gale-Peeta e  sui sentimenti di Katniss nei confronti dei due ragazzi, senza per questo eccedere nello stucchevole sentimentalismo. The Hunger Games è prima di tutta una storia di lotta e sopravvivenza, con una robusta dose di azione e suspense. Non tutti i partecipanti sono malcapitati estratti per sorte avversa; nei Distretti più ricchi alcuni ragazzi vengono a tutti gli effetti addestrati per vincere  il torneo. Contro questi guerrieri in erba Katniss può solo opporre il suo naturale istinto di sopravvivenza, quello che le ha permesso di andare avanti dopo la morte di suo padre, la conoscenza della natura sviluppata nel corso degli anni e la sua abilità con l’arco. Ma sarà sufficiente per portare la pellaccia a casa?
Per gli amanti delle classificazioni, The Hunger Games può essere considerato fantascienza, riferendoci però a quel ramo della stessa più interessato agli aspetti sociali piuttosto che alle potenzialità del progresso scientifico-tecnologico. Il livello tecnologico di Panem è grossomodo paragonabile al nostro. La notevole eccezione è l’ingegneria genetica, utilizzata dalla Capitale ai tempi della guerra contro di Distretti, che a dato origini a nuove specie animali (e non solo) dette Muttations.  Panem è una tirannia fondata sull’oppressione dei 12 distretti, ma non per questo lo scenario è desolante come in altre visioni distopiche del futuro (per dirne una 1984). Il regime oppressivo non risparmia neppure gli stessi abitanti della Capitale, come Katniss intuisce dopo l’incontro con una Avox, una Capitolina punita con il taglio della lingua per aver tentato di fuggire nelle terre selvagge oltre i confini di Panem.
Proprio a causa della narrazione fluida a cui ho accennato in precedenza il romanzo termina nel momento più appropriato, lasciando al contempo ampio spazio a un potenziale seguito. Come prevedibile un solo seguito non poteva bastare a raccontare tutta la storia e così The Hunger Games ha dato origine a una (almeno per ora) trilogia. Nel primo libro, Collins si sofferma maggiormente sulla dinamica dei Giochi e sulle vicende dei personaggi, ma mi è stato dato a intendere gli aspetti più prettamente “politico-sociali” rivestiranno un ruolo più importante nei libri successivi.
A voler essere pignoli c’è breve momento di stanca poco prima dell’ultimo scontro e la buena suerte sembra strizzare più di un occhio alla nostra eroina, ma ci sentiamo di perdonare queste minime sbavature a fronte del risultato finale. Ci sono momenti di orrore e desolazione in The Hunger Games, ma l’autrice non permette ai suoi personaggi di crogiolarsi nella sofferenza…prima bisogna sopravvivere, al resto si pensa dopo. In altre mani, il romanzo sarebbe potuto venir fuori molto più cupo e deprimente – più adulto e realista, direbbero alcuni – e avrebbe così perso buona parte del suo fascino. Panem non sarà il migliore dei mondi,  ma al suo interno c’è molto da salvare, dai boschi del distretto 12 fino ai grattacieli della Capitale, ed è un posto dove al lettore farà piacere ritornare (il conto in banca della Collins mi dà ragione).
Siccome di Giochi della Fame si è parlato e come è ben noto l’appetito vien mangiando, cercherò di mettere al più presto le mani sul secondo tomo, Catching Fire, per vedere se sazierà quello spazietto lasciato libero dalla prima portata.