I've got a very Briny Notion
To drink myself to sleep.
Bring me my bowl, my magic potion!
Tonight I'm diving deep.
down! down! down!
Down where the dream-fish go.
(Sauron Defeated, pag. 224)
The
Notion Club Papers – pubblicato in Sauron Defeated,
il nono libro della serie The History of
Middle-earth - è, a mio modo di vedere, una delle opere più complesse e
affascinanti di J.R.R. Tolkien. Una sinfonia incompiuta, come la stragrande
maggioranza dei lavori del Professore.
I Papers furono scritti tra la fine del ’ 44 e il ’46, in un periodo in cui il JRRT aveva messo da parte Il Signore degli Anelli pur essendo già arrivato a redigere i primi capitoli de Il Ritorno del Re.
I Papers furono scritti tra la fine del ’ 44 e il ’46, in un periodo in cui il JRRT aveva messo da parte Il Signore degli Anelli pur essendo già arrivato a redigere i primi capitoli de Il Ritorno del Re.
I Notion Club Papers sono molte cose allo stesso tempo: da un lato,
sin dal nome, rappresentano un tributo scherzoso agli Inklings, il gruppo informale di letterari di cui Tolkien e C.S.
Lewis facevano parte. Dall’altro, rappresenta il secondo tentativo, da parte
del Professore, di scrivere un romanzo fantastico – di fantascienza, se
vogliamo, visto che è ambientato nel biennio 1986/87 - basato sul Viaggio nel
Tempo. L’idea era nata in origine diversi anni addietro, nel 1937, quando
Tolkien e Lewis, insoddisfatti dallo scarno numero di libri fantastici loro
gradimento, si erano ripromessi di scriverne uno a testa. Era stato stabilito
che Lewis avrebbe scritto un’opera basata sul viaggio nello Spazio, mentre il
soggetto di Tolkien sarebbe stato, appunto, il viaggio nel Tempo. Ma, mentre il
romanzo di Lewis, Out Of The Silent
Planet, vide effettivamente le stampe nel 1938 e diede origine alla Space Trilogy, quello di Tolkien, dal
provvisorio titolo The Lost Road, si
arenò dopo una cinquantina di pagine. Il tema portante del romanzo, la caduta
di Atlantide-Númenór, una isola leggendaria situata a “occidente” del mondo
degli uomini, a metà strada tra questo mondo e il paradiso terrestre, diventerà
una degli elementi mitologici a sfondo del Signore
degli Anelli.
Tolkien aveva abbandonato The Lost Road perché insoddisfatto di
come si stava sviluppando, ma l’idea di fondo rimase in qualche anfratto della
sua mente, e tentò di riproporla, in veste diversa, nella Seconda Parte dei Notion Club Papers.
Introdotti da una prefazione che
sa tanto di scherzo (o nonsense) [1], i Notion
Club Papers sono costituiti da due parti distinte: The Ramblings of Ramer e The
Strange Case of Arundel Lowdham. Anche se in seguito, Tolkien rigettò
questa suddivisione, il figlio Christopher decise di mantenerla nella versione
pubblicata e se ne può ben capire il motivo.
Le due parti, pur essendo
entrambe incentrate sullo stesso gruppo di persone, affrontano due tematiche
profondamente diverse e possono per questo essere esaminate come due segmenti
separati.
I membri del Notion Club, rappresentati (non troppo fedelmente, per la verità) da Afalstein. In prima fila da sinistra: Nicholas Guildford, Arundel Lowdham, Michael G. Ramer, Wilfred T. Jeremy In seconda fila: Alexander Cameron, un intruso, Rupert "Rufus" Dolbear e un altro intruso |
In particolare, per quelli che
sono gli scopi di questa breve disamina, è mio interesse focalizzarmi solo
sulla prima parte dell’opera, il resoconto degli esperimenti onirici di
Nicholas Ramer. Lo faccio per diverse ragione. Innanzitutto perché la seconda
parte si ricollega, come già detto, al mito di Númenór-Atlantide e ripropone i
temi già affrontati da Tolkien in precedenza – nell’incompiuto The Lost Road - e in parte riproposti, seppur in contesto
differente, all’interno de Il Signore
degli Anelli. A questa seconda parte si accompagna un'altra serie di
scritti The Drowning of Anadûnê, un
resconto della caduta di Númenór fondato su una cosmogonia leggermente diversa
da quella considerata canonica. Tutti questi documenti sono stati analizzati
con dovizia di dettaglio da Christopher Tolkien e non vedo come
potrei aggiungere qualcosa di cui lui non potesse essere al corrente.
Il resoconto inizia dalla
sessantesimo appuntamento del gruppo.. Ramer ha appena terminato la lettura
della sua ultima opera e chiede ai presenti un giudizio. Guildford, il cronista
degli incontri, evidenzia come abbia notato una stonatura, una discrepanza tra
la storia in sé – ambientata, a quanto si deduce, in un pianeta lontano di nome
Emberü – e la sua cornice, riferendosi in particolare al viaggio compiuto dal
protagonista per giungere dalla Terra su Emberü. Ne nasce una discussione sui
viaggi nello Spazio e sulla loro credibilità scientifica e letteraria. Ramer –
alter-ego di Tolkien, in questo e molti altri aspetti – afferma di trovare
insoddisfacenti buona parte delle soluzioni “tecnologiche” adottate dagli
autori di fantascienza per superare le distanze cosmiche e i limiti imposti
dalla velocità della luce e dal corpo umano. La Scienza, egli afferma,
restringe le possibilità in questo senso piuttosto che ampliarle.
Guildford evidenzia come la “macchina” utilizzata determini il tono della storia. Le navi spaziali porteranno solo in posti dove si troveranno cannoni laser e veicoli supersonici:
“Non c’è bisogno di viaggiare con un razzo per trovare a Faërie. Può trovarsi dovunque, e in nessun luogo.” (SD, 170)
La strada per Faërie è stato uno dei temi
nodali nell’opera tolkeniana dai suoi primi tentativi di scrivere una mitologia
per l’Inghilterra (Racconti Perduti,
composto nel 1916-17), fino all’ultimo lavoro pubblicato in vita, la fiaba Fabbro di Wootton Major. Non serve un
razzo per raggiungere la terra degli Elfi, eppure solo pochi scoprono “il sentiero segreto che porta ad ovest del
Luna e ad est del Sole”, come lo chiama Frodo, nell’ultimo capitolo del Signore degli Anelli. Ci riescono Frodo
e Bilbo, prendendo la nave che li condurrà per sempre lontano dalle coste della
Terra-di-mezzo; ci riesce Eriol/Ælfwine
– amico degli Elfi, appunto – marinaio anglosassone naufragato a Tol Eressea in
Racconti Perduti; e ci riesce Fabbro,
grazie a un magico lasciapassare ricevuto in dono da bambino e a cui dovrà
rinunciare sulla soglia della vecchiaia.
Una strada differente viene illustrata
nei Notion Club Papers. A indicare il
sentiero è Rupert Dolbear, chimico appassionato di filosofia e
psicanalisi, in un certo senso
l’equivalente di Gandalf all’interno del Notions Club. Nel bel mezzo della
discussione su viaggi spaziali, egli torna a porre l’attenzione sul tema di
partenza, ossia la dissonanza tra il viaggio iniziale e la destinazione dove la
storia si sviluppa e evidenzia come sembrino scritte da due persone diverse.
Dolbear attribuisce a Ramer solo
scrittura dei primi capitoli, mentre il resto della storia, dice, non è stata
da questi inventata, quanto piuttosto sperimentata. In altre parole vissuta. Quindi,
ingiunge a Ramer di spiegare dove si trovi Emberü e come vi sia arrivato. Ramer
dice di non sapere dove si trovi, ma ammette di esserci stato. Di fronte
all’incredulità dei presenti, ai quali non era sfuggita una certa stranezza
nella storia, troppo vivida per essere frutto della sola immaginazione, Ramer
promette di spiegare tutto all’appuntamento della settimana successiva.
La notte 61 è interamente
dedicato al resoconto di Ramer. Egli, afferma ha sempre desiderato esplorare la
possibilità, almeno da un punto di vista letterario, di viaggiare nel Tempo e
nello Spazio, ma senza l’ausilio di alcun veicolo fisico (sulla cui
inadeguatezza concorda con Guildford). Questo desiderio, unito al suo interesse
per i sogni, su come si sviluppino e quale possa essere la loro relazione con
la creatività cosciente, lo spinse a ritenere che il Sogno poteva essere un
“veicolo” plausibile per consentire alla mente di superare le barriere del
Tempo.
Ramer definisce questi sogni, in
cui l’agente “percepisce” e “sperimenta” un Luogo e un Tempo diverso da quello
dove il suo corpo si trova, come Sogni Veri e ammette che sono un
evento piuttosto raro. L’evento pero, riteneva, poteva essere favorito
dall’utilizzo di un opportuno veicolo per la mente.
“La mente usa le memorie del proprio corpo. Non potrebbe utilizzare anche altri ricordi, o per meglio dire resoconti? Che genere di resoconti di eventi passati si potrebbero utilizzare e quale forma dovrebbero essi avere?” (SD, 177)
Ramer racconta di avere
sperimentato diverse forme di addestramento per raggiungere la concentrazione e
ottenere tranquillità, liberandosi dai rumori del corpo e del mondo esteriore.
Una volta raggiunta questa capacità, aveva cercato di usare la sua mente per
ispezionare, o in qualche modo acquisire consapevolezza delle memorie contenute
in certi oggetti. L’esperienza si era rivelata lenta e difficoltosa,
soprattutto con forme prive di vita organica.
Nonostante gli scarni progressi
nelle sue “ispezioni”, aveva notato come queste sembravano influenzare i suoi
sogni. In questi aveva percezioni sfumate e confuse di elementi estranei ai
suoi sogni abituali, e sebbene faticasse a memorizzare queste sensazioni,
ricordava visioni di motivi geometrici in moti caleidoscopici e altre
impressioni sensoriali affini a ritmi quasi musicali o sensazioni somatiche e
di pressione
Tutto questo però non lo aveva
ancora aiutato a raggiungere il suo scopo iniziale: scoprire un “veicolo” per lasciare la Terra. Per questa ragione
decise di ispezionare un corpo di origine celeste, sufficientemente integro da
conservare potenziali ricordi e impressioni dallo spazio profondo: un
meteorite, esposto in un parco pubblico. Il tentativo portò scarsi risultati, poiché
il luogo di giorno era troppo frequentato per raggiungere la concentrazione
necessaria e di notte era chiuso al pubblico.
Nel frattempo continuò a
sperimentare strani sogni ed esperienze oniriche, alle volte dolorose e
allarmanti: sensazioni di Peso,
Velocità, Fuoco, Spazi Immensi e di Tempo. Percezioni immani e terrificanti,
estranee all’esperienza umana.
Per questo tornò a dedicarsi
all’ispezione dei sogni, in particolare quei sogni più profondi, meno legati a
sensazioni fisiche. Alcuni di questi, riteneva, facevano parte di sequenze di
sogni ripetuti, e sembravano dotati di un significato o un’emozione che la
mente umana non era in grado di ricordare una volta sveglia.
Fu in questo modo che sperimentò
il suo primo risveglio nel mondo del sogno, quello che oggi noi definiremmo un
sogno lucido. Ramer descrive il fenomeno come l’opposto di quando uno si
sveglia di soprassalto e percepisce il sogno appena vissuto come andare in
frantumi e inutilmente tenta di riconnetterne le memorie e le sensazioni:
“Ero sveglio a letto e caddi in un sonno profondo, improvvisamente e violentemente (…). Mi immersi attraverso diversi livelli e un turbinio di forme e scene fino ad avere una sequenza connessa e memorizzata. Potevo ricordare tutti i sogni che avevo avuto di quella sequenza (…). E il ricordo non svanì quando mi svegliai e non è più svanito. (…) Da allora ho rivisitato molte altre sequenze e adesso ricordo un gran numero di sogni seri e liberi, i miei sogni profondi.” (SD, 184)
Con la ricostruzione di sequenze
complete (strutturate), i piccoli frammenti che Ramer era riuscito a ricordare in
precedenza diventano tasselli in un mosaico più grande e il loro significato appare
quasi manifesto. Dopo aver fornito un paio di esempi a questo riguardo e i loro
legami con alcune storie che aveva scritto e dimenticato anni addietro, Ramer
espone alcune immagini dal significato mitico o simbolico. Ed è in questi
punti, nella capacità di evocare in poche righe, visioni cosmogoniche e
mitiche, emerse da luoghi lontani nello spazio e nel tempo che riconosciamo il
miglior Tolkien.
“Ecco alcuni dei miei frammenti di questo genere. C’è un trono vuoto sulla sommità di una montagna. C’è un’Onda Verde, dalla cresta bianca, flautata e increspata ma immensa che torreggia sopra verdi campi, spesso anche con alberi o boschi; questa mi è apparsa costantemente. Ho visto diverse volte una scena in cui un’ampia pianura si estende davanti ai piedi dell’erto precipizio su cui mi trovo; il cielo di fronte a me è immenso, sale come un muro verticale, non si curva come una cupola, e rifulge di stelle sparpagliate in maniera irregolare su tutta la sua estensione. Questo è un monito, o il presagio di una catastrofe. Una forma scura a volte si muove attraverso il cielo, visibile solo per l’occultarsi delle stelle al suo passaggio. Poi c’è un’alta torre, grigia e circolare su uno strapiombo alla fine della terra. Il Mare non può essere visto, perché è troppo in basso, incommensurabilmente lontano, ma si può avvertire il profumo. E ancora e ancora di nuova, in molti stadi di crescita e in molte differenti situazioni di luce ed ombra, tre alti alberi, slanciati, uno a fianco all’altro su un tumulo verde, coronati con un alone avvolgente dai colori blu e oro.” (SD, 194)
È possibile, anche se non sempre
immediato trarre alcuni paralleli tra le visioni descritte da Ramer e il
legendarium tolkeniano: il trono sulla montagna potrebbe essere il Trono di
Manwë sulla sommità di Taniquetil; l’Onda Verde è per certo un elemento
ricorrente nei sogni di Tolkien stesso e lo stimolo originario allo sviluppo
della caduta di Númenór-Atlantide, il tema principale della seconda parte dei Noiion Club Papers. I tre alberi su un
colle verde rimandano ai due Alberi della Luce, a Valinor. Altre immagini non
sono così facilmente riconducibili e, probabilmente, nessuna associazione
esplicita è da intendersi:
“E che cosa pensi che tutto ciò significhi?” domandò Franley,
“Mi ci è voluto un po’ di tempo, fin troppo, per spiegare la storia marginale del bibliotecario” disse Ramer. “Non potrei imbarcarmi oggi in anche solo una delle immense e ramificate leggende e cosmogonie a cui queste appartengono.” (SD, 194)
Ramer spiega come abbia visitato
diversi corpi celesti, tra cui Emberü il Verde, attraverso altre menti, oppure
servendosi di altri mezzi e ricordi; non esclude la possibilità di aver usato
come veicolo la luce stessa. Descrive tre di questi mondi: Emberü il Verde,
abitato da un sorta di vita organica sana e dalla lunga vita; Ellor Eshúrizel,
un immenso piano argentato disseminato di forme inanimate disposte in strutture
ordinate, simile a un giardino di natura inorganica, ricco di colori e percorso
da grandi corsi d’acqua e cascate maestose. Ramer fa un accenno ai misteriosi
En-keladim, che ritiene risiedano su Ellor. L’ultimo mondo descritto è Minal
Zidar il dorato, silenzioso e dalle forme perfette, imperituro nel Tempo. Ramer
non è in grado di stabilire, dove e quando siano situati i mondi da lui
visitati, anche se ritiene siano ben al di confini del Campi di Arbol (il nome
usato per descrivere il Sistema Solare da C.S. Lewis nella sua Trilogia Spaziale).
Segue una discussione sulla comunicazione
verbale proveniente da esseri incorporei. Ramer ritiene che il linguaggio possa
essere prodotto solo da esseri incarnati (e in questo molti studiosi di
intelligenza artificiale sono pronti a dargli ragione), mentre la comunicazione
da entità spirituali è interpretata dall’impressione (non illusione!)
sensoriale del ricevente.
Le esplorazioni astronomiche non
sono un evento frequente nei sogni lucidi sperimentati da Ramer, e sono per lo
più guidate dal suo desiderio. Altri desideri, forse non legati alla sfera
cosciente, lo hanno portato altrove. Cita il mito di Atlantide e l’Onda
Flautata, suscitando la curiosità di Arry Lowdham (anticipando così, sia pur
con un solo accenno, il tema principale della seconda parte dei Papers) e nuovamente gli En-keladim,
creature affini agli Elfi nella loro radiosa nobiltà, sebbene, a differenza di
questi ultimi, siano puri spiriti non vincolati a un corpo a meno che non
desiderino indossarne uno.
In conclusione Ramer descrive il
viaggio a Tekel-Mirim, la terra di cristallo, dove la materia inanimata si
muove e cresce costantemente in nuove conformazioni cristalline, piramidi e
poliedri dalle molteplici forme. Racconta di esserci stato più volte, e che una
notte, recedendo con una velocità irresistibile dalla visione di Tekel-Mirim si
ritrovò ad osservare dall’alto un paesaggio in tumultuosa evoluzione, prima
tormentato da vapori e sommovimenti della terra e del mare, poi invaso da una
crescita forse vegetale e forse fungina e infine popolato da una sorta di
creature “affini a formiche”, sempre in movimento, costantemente intente a
costruire nuove ed orribili abitazioni. Pian piano la scena rallenta e Ramer si
rende conto di stare osservando un paesaggio familiare dall’alto: la scena a
cui aveva assistito, e che tanto lo aveva ripugnato dopo l’esperienza di
Tekel-Mirim, era stata una visione ad alta velocità della valle del Tamigi e di
Oxford da prima della comparsa della vita fino al momento stesso in cui il
sogno si sta svolgendo. Nel sogno Ramer sente le campane della chiesa suonare
le 7 di mattina e si sveglia. E con questo termina il resoconto delle sue
esperienze oniriche e la prima parte dei Papers.
Che cosa dire in conclusione di The Ramblings of Ramer. Innanzitutto che
si tratta di una lettura eccellente ed estremamente originale nel tema esposto,
anche se la materia trattata non è leggera e facilmente farebbe scappare il
lettore in cerca di un ordinario romanzo fantastico (o anche solo di narrativa
in generale). Il lettore paziente, d’altro canto, soprattutto dopo una seconda
lettura, non potrà che rimanere affascinato dalla maestria con cui Tolkien
descrive l’esperienza di Sogno Lucido e come riesca in poche righe ad evocare
visioni convincenti di mondi lontani. Una particolare menzione va data, alla
scelta dei nomi, sempre azzeccata (come d’altronde è naturale attendersi da un
filologo appassionato di linguaggi inventati). Nel testo, una lunga riflessione
viene dedicata all’origine di questi nomi se appartengano a lingue aliene o se
siano stati reinterpretati dal gusto e dalle facoltà di Ramer. Non è
infrequente, almeno per mia esperienza, che nei sogni alcune parole vengano
percepite e rimangano come marchiate a fuoco nella mente, almeno negli istanti
subito dopo il risveglio. Nel mio caso però sono sempre parole in lingue che conosco
(Italiano, a volte Inglese).
Il quesito principale sollevato
da The Ramblings Of Ramer è se
Tolkien stia facendo solo un gioco di fantasia o se stia invece esponendo
qualcosa di più personale, una tecnica da lui stesso utilizzata per rivivere
alcuni sogni ricorrenti, quale il Sogno della Grande Onda. E, in caso
affermativo, quanto queste sue esplorazioni oniriche possono avere influenzato
lo sviluppo del suo legendarium e del Signore degli Anelli.
Vari artisti, nei campi più
disparati hanno fatto ricorso a tecniche quali sonno, meditazione, o più
comunemente droghe, per stimolare la loro vena creativa. Lovecraft stesso,
scrisse diversi racconti, dopo averli sperimentati in sogno, e Stephen King ha
rivelato in questa
intervista di aver usato idee tratte dai suoi sogni in alcuni romanzi, tra
cui Misery.
Visto che Tolkien era anche un
Cattolico praticante, sarebbe interessante sapere quanto queste sue esperienze
potessero essere legate a forme di preghiera o meditazione, sebbene di queste
dovrebbero avergli procurato visioni ed esperienze di genere differente. Egli,
sempre attento a non mischiare narrativa e religione, si sarebbe ben guardato
da riferirle in una sua opera letteraria.
Christopher Tolkien, in Sauron Defeated, si astiene dal fornire commenti su The Ramblings of Ramer, ad eccezione
delle note che accompagnano il testo e che per lo più spiegano il significato
di nomi, riferimenti ad altri romanzi (soprattutto la già citata Trilogia Spaziale di Lewis) e anche
alcuni giochi di parole.
Non entro in questo libro in qualsiasi discussione critica degli argomenti e le questioni sollevate in The Ramblings of Michael Ramer. Ciò è in parte perché non sono qualificato per discutere di loro, ma anche perché cadono in qualche modo fuori della portata e lo scopo di The History of Middle-earth, che è soprattutto presentare testi accurati e accuratamente ordinati (per quanto ne sono capace) e spiegarli comparativamente, all'interno del contesto della Terra-di-mezzo' e delle terre d'Occidente. Con il limitato tempo a mia disposizione per questo libro ho pensato che avrei potuto meglio dedicarlo in ogni caso a chiarire la complessità del materiale 'Númenóreano'. (SD, 152)
Viene spontaneo domandarsi se le
reticenza di Tolkien jr. sia in qualche modo dovuta al potenziale riferimento
del padre a fatti ed esperienze personali, riferiti attraverso la bocca di
Ramer. Difficilmente, a questo punto, il dubbio verrà sciolto.
A quanto pare, Verlyn Flieger,
studiosa di mitologia comparata e celebre tolkienista ha dedicato una particolare attenzione a The Notion Club Papers nel suo A Question of
Time. Quando avrò occasione di leggerlo, magari posterò alcuni
aggiornamenti sull’argomento.
Note:
[1] - I Papers veri e propri sono preceduti da un’introduzione che sa tanto di scherzo: è scritta da un immaginario curatore, un tale Mr. Green, che afferma di aver trovato questi resoconti nel 2012 in un archivio di Oxford. Le carte riportano i dettagli di una serie di incontri di un circolo letterario chiamato appunto “Notion Club”, attivo a metà degli anni ’80. I nomi degli affiliati sono elencati di seguito con una breve descrizione di ciascuno dei membri. Tuttavia il signor Green non è sicuro della genuinità dell’opera: essa è stata scritta su carta usata negli anni quaranta (ai tempi della Guerra dei Sei Anni, come egli la chiama) e lo stile della prosa è più facilmente riconducibile a quel periodo. Inoltre, nessuno dei membri del club risulta essere vissuto a Oxford negli anni Ottanta. Il tutto farebbe pensare a un’opera di fantasia scritta da qualche buontempone a metà anni Quaranta, se non fosse che alcuni eventi storici successivi, come la Grande Esplosione del 1975 e la Tempesta del 1987 vengono riportate fedelmente e sono anche parte integrante nelle vicende esposte della Seconda Parte. Green si sente propenso a ritenere i Papers un lavoro di fantasia, anche per la materia trattata.