martedì 4 ottobre 2011

Il gioco di Katniss: The Hunger Games


Una quindicina di anni fa, tra le produzioni della Sergio Bonelli Editore c’era una collana chiamata ZONA X. Nata come uno spin-off di Martin Mystère, rappresentava a quei tempi una delle poche escursioni nel fantastico del fumetto italiano (almeno per quanto ne sapessi io, povero liceale ignorante). Ogni uscita conteneva due storie: alcune appartenevano a mini-serie (di cui ricordo Magic Patrol, Robinson Hart e i Cavalieri del Tempo e La Stirpe di Elän, quest’ultima l’unica prettamente heroic fantasy), altre erano episodi autoconclusivi. Uno di questi ultimi, pubblicato nel numero 19, si intitolava La Caccia ed era ambientato in un futuro a tinte cupe non troppo distante, in cui lo spettacolo televisivo più popolare è una caccia all’uomo svolta all’interno di un’arena con una particolare ambientazione storico-geografica. I cacciatori erano un gruppo di mercenari professionisti, mentre ogni settimana una preda veniva sorteggiata tra l’intera popolazione mondiale. I cacciatori avevano un’ora di tempo per stanare e uccidere la loro preda; quest’ultima, per ogni minuto di sopravvivenza, guadagnava una somma di denaro che, in caso di morte sarebbe stata elargita alla sua famiglia.
La trama della storia non era poi del tutto originale presentando tra l’altro molte analogie con L’Uomo in Fuga (The Running Man) di Stephen King, uscito nel lontano ’82. Tuttavia l'efficacia della storia e una protagonista femminile dalla personalità forte sono rimaste sepolte nella mia mente per una decina d’anni, per tornarmi in mente mentre leggevo The Hunger Games.
Dubito però che Suzanne Collins, l’autrice di The Hunger Games, abbia mai letto ZONA X. Più probabilmente potrebbe aver preso qualche spunto da The Running Man e da un’altra manciata di libri/film distopici la cui storia gira intorno a un reality show cruento. In ogni caso, la sua storia i  questione ha sufficiente personalità da non dover temere eventuali paragoni (che sono il mio forte, come avrete notato dalle mie precedenti recensioni).
[SEGUE SINOSSI CON QUALCHE SPOILER]
In un futuro non troppo distante, il tirannico stato (non lo definirei totalitario) di Panem è sorto sulle rovine di quello che era il Nord America. Panem è costituito da una ricca Capitale, chiamata per l’appunto Capitol, e dodici distretti in condizioni di povertà più o meno marcate. È facile intendere che buona parte della ricchezza della Capitale è dovuta allo sfruttamento delle risorse dei dodici distretti. Settantacinque anni prima questi ultimi si erano ribellati al giogo dello stato centrale e dopo una guerra lunga ed estenuante erano stati sonoramente sconfitti. A perenne memoria dell’umiliazione subita allora – come accadde agli Ateniesi nei confronti di Minosse – ogni anno ciascun distretto deve fornire un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni, affinché partecipino a un reality show dal nome “Hunger Games”. I due fortunati vengono estratti a sorte in un’assemblea pubblica soprannominata “mietitura”. Lo spettacolo in questione, il più popolare di tutta Panem, si svolge all’interno di un’arena e prevede una lotta senza tregue e all’ultimo sangue tra i ventiquattro partecipanti. L’ultimo sopravvissuto verrà proclamato vincitore e potrà godere di una vita di agi e privilegi.
Katniss Everdeem è una ragazza di 16 anni del Distretto 12, il più povero di tutta Panem. Suo padre è morto durante un’esplosione all’interno delle miniere di carbone quando lei aveva solo undici anni, e da allora Katniss ha dovuto provvedere alla sopravvivenza di sua madre – caduta  in uno stato di depressione a causa della morte del marito – e della sorella più piccola, Primrose.
Insieme all’amico Gale Hawthorne, ogni giorno scavalca il recinto spinato che delimita il Distretto e si reca nei boschi a cacciare di selvaggina, bacche e funghi. Da suo padre ha ereditato la capacità di muoversi nel bosco con la grazia di un felino e una precisione chirurgica con l’arco. Grazie alla sua attività di bracconaggio, la sua famiglia è riuscita a condurre una vita dignitosa. Katniss ama sua sorella Prim sopra ogni cosa e farebbe di tutto per tenerla al sicuro. Così, quando alla sua prima “mietitura” (e che sfiga!) Prim viene sorteggiata, Katniss non ci pensa due volte a offrirsi volontaria al suo posto. Insieme a lei viene estratto Peeta Mellark, il figlio del fornaio. Anni addietro Peeta le aveva regalato di nascosto due forme di pane nel peggiore periodo di miseria dopo la morte del padre e per questo Katniss sente ancora di avere un debito nei suoi confronti. Un debito oneroso, se l’occasione di saldarlo si presenterà nell’Arena, dove la morte di uno può significare la vita dell’altro.
Nel viaggio in treno tra il distretto e la Capitale, i due ragazzi riescono a guadagnarsi la stima di Haymitch e, con l’aiuto di un’abile squadra di stilisti riescono a fare colpo durante il periodo di presentazione in preparazione ai Giochi. Katniss impressiona gli Organizzatori per il suo temperamento. Peeta dal canto suo, spiazza tutti, quando nell’intervista televisiva alla vigilia dell’ingresso nell’Arena lascia chiaramente a intendere di essere innamorato di Katniss da quando era bambino. Un dubbio sorge spontaneo: è una confessione genuina o solo una mossa per guadagnarsi la simpatia del pubblico e degli sponsor? La risposta – per quanto abbastanza palese sin dall’inizio – si avrà soltanto nell’arena dove ognuno dovrà lottare per la propria sopravvivenza.
[FINE SINOSSI]
Due particolarità saltano all’occhio dello stile usato da Suzanne Collins in The Hungers Games. La prima è la narrazione in prima persona (da punto di vista di Katniss), tutta svolta al tempo presente. La seconda è la totale assenza di soluzione di continuità nella narrazione: ogni capitolo ha inizio precisamente nell’istante in cui il precedente si è concluso. Questa scelta conferisce alla storia una struttura fluida, senza un reale momento di pausa per il lettore, che fatica a trovare il punto migliore per posare il libro e preferirebbe avere il tempo di mandarlo giù tutto d’un colpo, come una bella tequila con sale e limone.
La Collins gioca abilmente con il triangolo Katniss-Gale-Peeta e  sui sentimenti di Katniss nei confronti dei due ragazzi, senza per questo eccedere nello stucchevole sentimentalismo. The Hunger Games è prima di tutta una storia di lotta e sopravvivenza, con una robusta dose di azione e suspense. Non tutti i partecipanti sono malcapitati estratti per sorte avversa; nei Distretti più ricchi alcuni ragazzi vengono a tutti gli effetti addestrati per vincere  il torneo. Contro questi guerrieri in erba Katniss può solo opporre il suo naturale istinto di sopravvivenza, quello che le ha permesso di andare avanti dopo la morte di suo padre, la conoscenza della natura sviluppata nel corso degli anni e la sua abilità con l’arco. Ma sarà sufficiente per portare la pellaccia a casa?
Per gli amanti delle classificazioni, The Hunger Games può essere considerato fantascienza, riferendoci però a quel ramo della stessa più interessato agli aspetti sociali piuttosto che alle potenzialità del progresso scientifico-tecnologico. Il livello tecnologico di Panem è grossomodo paragonabile al nostro. La notevole eccezione è l’ingegneria genetica, utilizzata dalla Capitale ai tempi della guerra contro di Distretti, che a dato origini a nuove specie animali (e non solo) dette Muttations.  Panem è una tirannia fondata sull’oppressione dei 12 distretti, ma non per questo lo scenario è desolante come in altre visioni distopiche del futuro (per dirne una 1984). Il regime oppressivo non risparmia neppure gli stessi abitanti della Capitale, come Katniss intuisce dopo l’incontro con una Avox, una Capitolina punita con il taglio della lingua per aver tentato di fuggire nelle terre selvagge oltre i confini di Panem.
Proprio a causa della narrazione fluida a cui ho accennato in precedenza il romanzo termina nel momento più appropriato, lasciando al contempo ampio spazio a un potenziale seguito. Come prevedibile un solo seguito non poteva bastare a raccontare tutta la storia e così The Hunger Games ha dato origine a una (almeno per ora) trilogia. Nel primo libro, Collins si sofferma maggiormente sulla dinamica dei Giochi e sulle vicende dei personaggi, ma mi è stato dato a intendere gli aspetti più prettamente “politico-sociali” rivestiranno un ruolo più importante nei libri successivi.
A voler essere pignoli c’è breve momento di stanca poco prima dell’ultimo scontro e la buena suerte sembra strizzare più di un occhio alla nostra eroina, ma ci sentiamo di perdonare queste minime sbavature a fronte del risultato finale. Ci sono momenti di orrore e desolazione in The Hunger Games, ma l’autrice non permette ai suoi personaggi di crogiolarsi nella sofferenza…prima bisogna sopravvivere, al resto si pensa dopo. In altre mani, il romanzo sarebbe potuto venir fuori molto più cupo e deprimente – più adulto e realista, direbbero alcuni – e avrebbe così perso buona parte del suo fascino. Panem non sarà il migliore dei mondi,  ma al suo interno c’è molto da salvare, dai boschi del distretto 12 fino ai grattacieli della Capitale, ed è un posto dove al lettore farà piacere ritornare (il conto in banca della Collins mi dà ragione).
Siccome di Giochi della Fame si è parlato e come è ben noto l’appetito vien mangiando, cercherò di mettere al più presto le mani sul secondo tomo, Catching Fire, per vedere se sazierà quello spazietto lasciato libero dalla prima portata.

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