giovedì 27 ottobre 2011

Rambling with Ramer: visioni oniriche da The Notion Club Papers, parte I



 
I've got a very Briny Notion
To drink myself to sleep.
Bring me my bowl, my magic potion!
Tonight I'm diving deep.
down! down! down!
Down where the dream-fish go.
(Sauron Defeated, pag. 224)



The Notion Club Papers – pubblicato in Sauron Defeated, il nono libro della serie The History of Middle-earth - è, a mio modo di vedere, una delle opere più complesse e affascinanti di J.R.R. Tolkien. Una sinfonia incompiuta, come la stragrande maggioranza dei lavori del Professore.
I Papers furono scritti tra la fine del ’ 44 e il ’46, in un periodo in cui il JRRT aveva messo da parte Il Signore degli Anelli pur essendo già arrivato a redigere i primi capitoli de Il Ritorno del Re.
I Notion Club Papers sono molte cose allo stesso tempo: da un lato, sin dal nome, rappresentano un tributo scherzoso agli Inklings, il gruppo informale di letterari di cui Tolkien e C.S. Lewis facevano parte. Dall’altro, rappresenta il secondo tentativo, da parte del Professore, di scrivere un romanzo fantastico – di fantascienza, se vogliamo, visto che è ambientato nel biennio 1986/87 - basato sul Viaggio nel Tempo. L’idea era nata in origine diversi anni addietro, nel 1937, quando Tolkien e Lewis, insoddisfatti dallo scarno numero di libri fantastici loro gradimento, si erano ripromessi di scriverne uno a testa. Era stato stabilito che Lewis avrebbe scritto un’opera basata sul viaggio nello Spazio, mentre il soggetto di Tolkien sarebbe stato, appunto, il viaggio nel Tempo. Ma, mentre il romanzo di Lewis, Out Of The Silent Planet, vide effettivamente le stampe nel 1938 e diede origine alla Space Trilogy, quello di Tolkien, dal provvisorio titolo The Lost Road, si arenò dopo una cinquantina di pagine. Il tema portante del romanzo, la caduta di Atlantide-Númenór, una isola leggendaria situata a “occidente” del mondo degli uomini, a metà strada tra questo mondo e il paradiso terrestre, diventerà una degli elementi mitologici a sfondo del Signore degli Anelli.
Tolkien aveva abbandonato The Lost Road perché insoddisfatto di come si stava sviluppando, ma l’idea di fondo rimase in qualche anfratto della sua mente, e tentò di riproporla, in veste diversa, nella Seconda Parte dei Notion Club Papers.
Introdotti da una prefazione che sa tanto di scherzo (o nonsense) [1], i Notion Club Papers sono costituiti da due parti distinte: The Ramblings of Ramer e The Strange Case of Arundel Lowdham. Anche se in seguito, Tolkien rigettò questa suddivisione, il figlio Christopher decise di mantenerla nella versione pubblicata e se ne può ben capire il motivo.
Le due parti, pur essendo entrambe incentrate sullo stesso gruppo di persone, affrontano due tematiche profondamente diverse e possono per questo essere esaminate come due segmenti separati.

I membri del Notion Club, rappresentati (non troppo fedelmente, per la verità) da  Afalstein.
 In prima fila da sinistra: Nicholas Guildford, Arundel Lowdham, Michael G. Ramer, Wilfred T. Jeremy
In seconda fila: Alexander Cameron, un intruso, Rupert "Rufus" Dolbear e un altro intruso
In particolare, per quelli che sono gli scopi di questa breve disamina, è mio interesse focalizzarmi solo sulla prima parte dell’opera, il resoconto degli esperimenti onirici di Nicholas Ramer. Lo faccio per diverse ragione. Innanzitutto perché la seconda parte si ricollega, come già detto, al mito di Númenór-Atlantide e ripropone i temi già affrontati da Tolkien in precedenza – nell’incompiuto The Lost Road -  e in parte riproposti, seppur in contesto differente, all’interno de Il Signore degli Anelli. A questa seconda parte si accompagna un'altra serie di scritti The Drowning of Anadûnê, un resconto della caduta di Númenór fondato su una cosmogonia leggermente diversa da quella considerata canonica. Tutti questi documenti sono stati analizzati con dovizia di dettaglio da Christopher Tolkien e non vedo come potrei aggiungere qualcosa di cui lui non potesse essere al corrente.
Il resoconto inizia dalla sessantesimo appuntamento del gruppo.. Ramer ha appena terminato la lettura della sua ultima opera e chiede ai presenti un giudizio. Guildford, il cronista degli incontri, evidenzia come abbia notato una stonatura, una discrepanza tra la storia in sé – ambientata, a quanto si deduce, in un pianeta lontano di nome Emberü – e la sua cornice, riferendosi in particolare al viaggio compiuto dal protagonista per giungere dalla Terra su Emberü. Ne nasce una discussione sui viaggi nello Spazio e sulla loro credibilità scientifica e letteraria. Ramer – alter-ego di Tolkien, in questo e molti altri aspetti – afferma di trovare insoddisfacenti buona parte delle soluzioni “tecnologiche” adottate dagli autori di fantascienza per superare le distanze cosmiche e i limiti imposti dalla velocità della luce e dal corpo umano. La Scienza, egli afferma, restringe le possibilità in questo senso piuttosto che ampliarle.
Guildford evidenzia come la “macchina” utilizzata determini il tono della storia. Le navi spaziali porteranno solo in posti dove si troveranno cannoni laser e veicoli supersonici:
“Non c’è bisogno di viaggiare con un razzo  per trovare a Faërie. Può trovarsi dovunque, e in nessun luogo.” (SD, 170)
La strada per Faërie è stato uno dei temi nodali nell’opera tolkeniana dai suoi primi tentativi di scrivere una mitologia per l’Inghilterra (Racconti Perduti, composto nel 1916-17), fino all’ultimo lavoro pubblicato in vita, la fiaba Fabbro di Wootton Major. Non serve un razzo per raggiungere la terra degli Elfi, eppure solo pochi scoprono  “il sentiero segreto che porta ad ovest del Luna e ad est del Sole”, come lo chiama Frodo, nell’ultimo capitolo del Signore degli Anelli. Ci riescono Frodo e Bilbo, prendendo la nave che li condurrà per sempre lontano dalle coste della Terra-di-mezzo; ci riesce Eriol/Ælfwine – amico degli Elfi, appunto – marinaio anglosassone naufragato a Tol Eressea in Racconti Perduti; e ci riesce Fabbro, grazie a un magico lasciapassare ricevuto in dono da bambino e a cui dovrà rinunciare sulla soglia della vecchiaia.
Una strada differente viene illustrata nei Notion Club Papers. A indicare il sentiero è Rupert Dolbear, chimico appassionato di filosofia e psicanalisi,  in un certo senso l’equivalente di Gandalf all’interno del Notions Club. Nel bel mezzo della discussione su viaggi spaziali, egli torna a porre l’attenzione sul tema di partenza, ossia la dissonanza tra il viaggio iniziale e la destinazione dove la storia si sviluppa e evidenzia come sembrino scritte da due persone diverse.
Dolbear attribuisce a Ramer solo scrittura dei primi capitoli, mentre il resto della storia, dice, non è stata da questi inventata, quanto piuttosto sperimentata. In altre parole vissuta. Quindi, ingiunge a Ramer di spiegare dove si trovi Emberü e come vi sia arrivato. Ramer dice di non sapere dove si trovi, ma ammette di esserci stato. Di fronte all’incredulità dei presenti, ai quali non era sfuggita una certa stranezza nella storia, troppo vivida per essere frutto della sola immaginazione, Ramer promette di spiegare tutto all’appuntamento della settimana successiva.
La notte 61 è interamente dedicato al resoconto di Ramer. Egli, afferma ha sempre desiderato esplorare la possibilità, almeno da un punto di vista letterario, di viaggiare nel Tempo e nello Spazio, ma senza l’ausilio di alcun veicolo fisico (sulla cui inadeguatezza concorda con Guildford). Questo desiderio, unito al suo interesse per i sogni, su come si sviluppino e quale possa essere la loro relazione con la creatività cosciente, lo spinse a ritenere che il Sogno poteva essere un “veicolo” plausibile per consentire alla mente di superare le barriere del Tempo.
Ramer definisce questi sogni, in cui l’agente “percepisce” e “sperimenta” un Luogo e un Tempo diverso da quello dove il suo corpo si trova, come Sogni Veri e ammette che sono un evento piuttosto raro. L’evento pero, riteneva, poteva essere favorito dall’utilizzo di un opportuno veicolo per la mente.
“La mente usa le memorie del proprio corpo. Non potrebbe utilizzare anche altri ricordi, o per meglio dire resoconti? Che genere di resoconti di eventi passati si potrebbero utilizzare e quale forma dovrebbero essi avere?” (SD, 177)
Ramer racconta di avere sperimentato diverse forme di addestramento per raggiungere la concentrazione e ottenere tranquillità, liberandosi dai rumori del corpo e del mondo esteriore. Una volta raggiunta questa capacità, aveva cercato di usare la sua mente per ispezionare, o in qualche modo acquisire consapevolezza delle memorie contenute in certi oggetti. L’esperienza si era rivelata lenta e difficoltosa, soprattutto con forme prive di vita organica.
Nonostante gli scarni progressi nelle sue “ispezioni”, aveva notato come queste sembravano influenzare i suoi sogni. In questi aveva percezioni sfumate e confuse di elementi estranei ai suoi sogni abituali, e sebbene faticasse a memorizzare queste sensazioni, ricordava visioni di motivi geometrici in moti caleidoscopici e altre impressioni sensoriali affini a ritmi quasi musicali o sensazioni somatiche e di pressione
Tutto questo però non lo aveva ancora aiutato a raggiungere il suo scopo iniziale: scoprire un “veicolo” per lasciare la Terra. Per questa ragione decise di ispezionare un corpo di origine celeste, sufficientemente integro da conservare potenziali ricordi e impressioni dallo spazio profondo: un meteorite, esposto in un parco pubblico. Il tentativo portò scarsi risultati, poiché il luogo di giorno era troppo frequentato per raggiungere la concentrazione necessaria e di notte era chiuso al pubblico.
Nel frattempo continuò a sperimentare strani sogni ed esperienze oniriche, alle volte dolorose e allarmanti: sensazioni di Peso, Velocità, Fuoco, Spazi Immensi e di Tempo. Percezioni immani e terrificanti, estranee all’esperienza umana.
Per questo tornò a dedicarsi all’ispezione dei sogni, in particolare quei sogni più profondi, meno legati a sensazioni fisiche. Alcuni di questi, riteneva, facevano parte di sequenze di sogni ripetuti, e sembravano dotati di un significato o un’emozione che la mente umana non era in grado di ricordare una volta sveglia.
Fu in questo modo che sperimentò il suo primo risveglio nel mondo del sogno, quello che oggi noi definiremmo un sogno lucido. Ramer descrive il fenomeno come l’opposto di quando uno si sveglia di soprassalto e percepisce il sogno appena vissuto come andare in frantumi e inutilmente tenta di riconnetterne le memorie e le sensazioni:
“Ero sveglio a letto e caddi in un sonno profondo, improvvisamente e violentemente (…). Mi immersi attraverso diversi livelli e un turbinio di forme e scene fino ad avere una sequenza connessa e memorizzata. Potevo ricordare tutti i sogni che avevo avuto di quella sequenza (…). E il ricordo non svanì quando mi svegliai e non è più svanito. (…) Da allora ho rivisitato molte altre sequenze e adesso ricordo un gran numero di sogni seri e liberi, i miei sogni profondi.” (SD, 184)
Con la ricostruzione di sequenze complete (strutturate), i piccoli frammenti che Ramer era riuscito a ricordare in precedenza diventano tasselli in un mosaico più grande e il loro significato appare quasi manifesto. Dopo aver fornito un paio di esempi a questo riguardo e i loro legami con alcune storie che aveva scritto e dimenticato anni addietro, Ramer espone alcune immagini dal significato mitico o simbolico. Ed è in questi punti, nella capacità di evocare in poche righe, visioni cosmogoniche e mitiche, emerse da luoghi lontani nello spazio e nel tempo che riconosciamo il miglior Tolkien.
“Ecco alcuni dei miei frammenti di questo genere. C’è un trono vuoto sulla sommità di una montagna. C’è un’Onda Verde, dalla cresta bianca, flautata e increspata ma immensa che torreggia sopra verdi campi, spesso anche con alberi o boschi; questa mi è apparsa costantemente. Ho visto diverse volte una scena in cui un’ampia pianura si estende davanti ai piedi dell’erto precipizio su cui mi trovo; il cielo di fronte a me è immenso, sale come un muro verticale, non si curva come una cupola, e rifulge di stelle sparpagliate in maniera irregolare su tutta la sua estensione. Questo è un monito, o il presagio di una catastrofe. Una forma scura a volte si muove attraverso il cielo, visibile solo per l’occultarsi delle stelle al suo passaggio. Poi c’è un’alta torre, grigia e circolare su uno strapiombo alla fine della terra. Il Mare non può essere visto, perché è troppo in basso, incommensurabilmente lontano, ma si può avvertire il profumo. E ancora e ancora di nuova, in molti stadi di crescita e in molte differenti situazioni di luce ed ombra, tre alti alberi, slanciati, uno a fianco all’altro su un tumulo verde, coronati con un alone avvolgente dai colori blu e oro.” (SD, 194)
È possibile, anche se non sempre immediato trarre alcuni paralleli tra le visioni descritte da Ramer e il legendarium tolkeniano: il trono sulla montagna potrebbe essere il Trono di Manwë sulla sommità di Taniquetil; l’Onda Verde è per certo un elemento ricorrente nei sogni di Tolkien stesso e lo stimolo originario allo sviluppo della caduta di Númenór-Atlantide, il tema principale della seconda parte dei Noiion Club Papers. I tre alberi su un colle verde rimandano ai due Alberi della Luce, a Valinor. Altre immagini non sono così facilmente riconducibili e, probabilmente, nessuna associazione esplicita è da intendersi:
“E che cosa pensi che tutto ciò significhi?” domandò Franley,
“Mi ci è voluto un po’ di tempo, fin troppo, per spiegare la storia marginale del bibliotecario” disse Ramer. “Non potrei imbarcarmi oggi in anche solo una delle immense e ramificate leggende e cosmogonie a cui queste appartengono.” (SD, 194)
 Dopo una discussione sulla possibilità di entrare in contatto, durante il sogno, con altre menti o spiriti senzienti e sulla possibilità che alcuni di essi possano avere intenzioni malvagie, Ramer ritorna al filo iniziale, ossia l’utilizzo del Sogno per esplorare luoghi al di là della Terra, e di come ottenne l’ispirazione per scrivere il racconto ambientato ad Emberü letto all’incontro precedente.
Ramer spiega come abbia visitato diversi corpi celesti, tra cui Emberü il Verde, attraverso altre menti, oppure servendosi di altri mezzi e ricordi; non esclude la possibilità di aver usato come veicolo la luce stessa. Descrive tre di questi mondi: Emberü il Verde, abitato da un sorta di vita organica sana e dalla lunga vita; Ellor Eshúrizel, un immenso piano argentato disseminato di forme inanimate disposte in strutture ordinate, simile a un giardino di natura inorganica, ricco di colori e percorso da grandi corsi d’acqua e cascate maestose. Ramer fa un accenno ai misteriosi En-keladim, che ritiene risiedano su Ellor. L’ultimo mondo descritto è Minal Zidar il dorato, silenzioso e dalle forme perfette, imperituro nel Tempo. Ramer non è in grado di stabilire, dove e quando siano situati i mondi da lui visitati, anche se ritiene siano ben al di confini del Campi di Arbol (il nome usato per descrivere il Sistema Solare da C.S. Lewis nella sua Trilogia Spaziale).
Segue una discussione sulla comunicazione verbale proveniente da esseri incorporei. Ramer ritiene che il linguaggio possa essere prodotto solo da esseri incarnati (e in questo molti studiosi di intelligenza artificiale sono pronti a dargli ragione), mentre la comunicazione da entità spirituali è interpretata dall’impressione (non illusione!) sensoriale del ricevente.
Le esplorazioni astronomiche non sono un evento frequente nei sogni lucidi sperimentati da Ramer, e sono per lo più guidate dal suo desiderio. Altri desideri, forse non legati alla sfera cosciente, lo hanno portato altrove. Cita il mito di Atlantide e l’Onda Flautata, suscitando la curiosità di Arry Lowdham (anticipando così, sia pur con un solo accenno, il tema principale della seconda parte dei Papers) e nuovamente gli En-keladim, creature affini agli Elfi nella loro radiosa nobiltà, sebbene, a differenza di questi ultimi, siano puri spiriti non vincolati a un corpo a meno che non desiderino indossarne uno.
In conclusione Ramer descrive il viaggio a Tekel-Mirim, la terra di cristallo, dove la materia inanimata si muove e cresce costantemente in nuove conformazioni cristalline, piramidi e poliedri dalle molteplici forme. Racconta di esserci stato più volte, e che una notte, recedendo con una velocità irresistibile dalla visione di Tekel-Mirim si ritrovò ad osservare dall’alto un paesaggio in tumultuosa evoluzione, prima tormentato da vapori e sommovimenti della terra e del mare, poi invaso da una crescita forse vegetale e forse fungina e infine popolato da una sorta di creature “affini a formiche”, sempre in movimento, costantemente intente a costruire nuove ed orribili abitazioni. Pian piano la scena rallenta e Ramer si rende conto di stare osservando un paesaggio familiare dall’alto: la scena a cui aveva assistito, e che tanto lo aveva ripugnato dopo l’esperienza di Tekel-Mirim, era stata una visione ad alta velocità della valle del Tamigi e di Oxford da prima della comparsa della vita fino al momento stesso in cui il sogno si sta svolgendo. Nel sogno Ramer sente le campane della chiesa suonare le 7 di mattina e si sveglia. E con questo termina il resoconto delle sue esperienze oniriche e la prima parte dei Papers.
Che cosa dire in conclusione di The Ramblings of Ramer. Innanzitutto che si tratta di una lettura eccellente ed estremamente originale nel tema esposto, anche se la materia trattata non è leggera e facilmente farebbe scappare il lettore in cerca di un ordinario romanzo fantastico (o anche solo di narrativa in generale). Il lettore paziente, d’altro canto, soprattutto dopo una seconda lettura, non potrà che rimanere affascinato dalla maestria con cui Tolkien descrive l’esperienza di Sogno Lucido e come riesca in poche righe ad evocare visioni convincenti di mondi lontani. Una particolare menzione va data, alla scelta dei nomi, sempre azzeccata (come d’altronde è naturale attendersi da un filologo appassionato di linguaggi inventati). Nel testo, una lunga riflessione viene dedicata all’origine di questi nomi se appartengano a lingue aliene o se siano stati reinterpretati dal gusto e dalle facoltà di Ramer. Non è infrequente, almeno per mia esperienza, che nei sogni alcune parole vengano percepite e rimangano come marchiate a fuoco nella mente, almeno negli istanti subito dopo il risveglio. Nel mio caso però sono sempre parole in lingue che conosco (Italiano, a volte Inglese).

Il quesito principale sollevato da The Ramblings Of Ramer è se Tolkien stia facendo solo un gioco di fantasia o se stia invece esponendo qualcosa di più personale, una tecnica da lui stesso utilizzata per rivivere alcuni sogni ricorrenti, quale il Sogno della Grande Onda. E, in caso affermativo, quanto queste sue esplorazioni oniriche possono avere influenzato lo sviluppo del suo legendarium e del Signore degli Anelli.
Vari artisti, nei campi più disparati hanno fatto ricorso a tecniche quali sonno, meditazione, o più comunemente droghe, per stimolare la loro vena creativa. Lovecraft stesso, scrisse diversi racconti, dopo averli sperimentati in sogno, e Stephen King ha rivelato in questa intervista  di aver usato idee  tratte dai suoi sogni in alcuni romanzi, tra cui Misery.
Visto che Tolkien era anche un Cattolico praticante, sarebbe interessante sapere quanto queste sue esperienze potessero essere legate a forme di preghiera o meditazione, sebbene di queste dovrebbero avergli procurato visioni ed esperienze di genere differente. Egli, sempre attento a non mischiare narrativa e religione, si sarebbe ben guardato da riferirle in una sua opera letteraria.
Christopher Tolkien, in Sauron Defeated,  si astiene dal fornire commenti su The Ramblings of Ramer, ad eccezione delle note che accompagnano il testo e che per lo più spiegano il significato di nomi, riferimenti ad altri romanzi (soprattutto la già citata Trilogia Spaziale di Lewis) e anche alcuni giochi di parole.
Non entro in questo libro in qualsiasi discussione critica degli argomenti e le questioni sollevate in The Ramblings of Michael Ramer. Ciò è in parte perché non sono qualificato per discutere di loro, ma anche perché cadono in qualche modo fuori della portata e lo scopo di The History of Middle-earth, che è soprattutto presentare testi accurati e accuratamente ordinati (per quanto ne sono capace) e spiegarli comparativamente, all'interno del contesto della Terra-di-mezzo' e delle terre d'Occidente. Con il  limitato tempo a mia disposizione per questo libro ho pensato che avrei potuto meglio dedicarlo in ogni caso a chiarire la complessità del materiale 'Númenóreano'. (SD, 152)
Viene spontaneo domandarsi se le reticenza di Tolkien jr. sia in qualche modo dovuta al potenziale riferimento del padre a fatti ed esperienze personali, riferiti attraverso la bocca di Ramer. Difficilmente, a questo punto, il dubbio verrà sciolto.
A quanto pare, Verlyn Flieger, studiosa di mitologia comparata e celebre tolkienista  ha dedicato una particolare attenzione a The Notion Club Papers nel suo A Question of Time. Quando avrò occasione di leggerlo, magari posterò alcuni aggiornamenti sull’argomento.

Note:
[1]  - I Papers veri e propri sono preceduti da un’introduzione che sa tanto di scherzo: è scritta da un immaginario curatore, un tale Mr. Green, che afferma di aver trovato questi resoconti nel 2012  in un archivio di Oxford. Le carte riportano i dettagli di una serie di incontri di un circolo letterario chiamato appunto “Notion Club”, attivo a metà degli anni ’80. I nomi degli affiliati sono elencati di seguito con una breve descrizione di ciascuno dei membri. Tuttavia il signor Green non è sicuro della genuinità dell’opera: essa è stata scritta su carta usata negli anni quaranta (ai tempi della Guerra dei Sei Anni, come egli la chiama) e lo stile della prosa è più facilmente riconducibile a quel periodo. Inoltre, nessuno dei membri del club risulta essere vissuto a Oxford negli anni Ottanta. Il tutto farebbe pensare a un’opera di fantasia scritta da qualche buontempone a metà anni Quaranta, se non fosse che alcuni eventi storici successivi, come la Grande Esplosione del 1975 e la Tempesta del 1987 vengono riportate fedelmente e sono anche parte integrante nelle vicende esposte della Seconda Parte. Green si sente propenso a ritenere i Papers un lavoro di fantasia, anche per la materia trattata.

martedì 4 ottobre 2011

Il gioco di Katniss: The Hunger Games


Una quindicina di anni fa, tra le produzioni della Sergio Bonelli Editore c’era una collana chiamata ZONA X. Nata come uno spin-off di Martin Mystère, rappresentava a quei tempi una delle poche escursioni nel fantastico del fumetto italiano (almeno per quanto ne sapessi io, povero liceale ignorante). Ogni uscita conteneva due storie: alcune appartenevano a mini-serie (di cui ricordo Magic Patrol, Robinson Hart e i Cavalieri del Tempo e La Stirpe di Elän, quest’ultima l’unica prettamente heroic fantasy), altre erano episodi autoconclusivi. Uno di questi ultimi, pubblicato nel numero 19, si intitolava La Caccia ed era ambientato in un futuro a tinte cupe non troppo distante, in cui lo spettacolo televisivo più popolare è una caccia all’uomo svolta all’interno di un’arena con una particolare ambientazione storico-geografica. I cacciatori erano un gruppo di mercenari professionisti, mentre ogni settimana una preda veniva sorteggiata tra l’intera popolazione mondiale. I cacciatori avevano un’ora di tempo per stanare e uccidere la loro preda; quest’ultima, per ogni minuto di sopravvivenza, guadagnava una somma di denaro che, in caso di morte sarebbe stata elargita alla sua famiglia.
La trama della storia non era poi del tutto originale presentando tra l’altro molte analogie con L’Uomo in Fuga (The Running Man) di Stephen King, uscito nel lontano ’82. Tuttavia l'efficacia della storia e una protagonista femminile dalla personalità forte sono rimaste sepolte nella mia mente per una decina d’anni, per tornarmi in mente mentre leggevo The Hunger Games.
Dubito però che Suzanne Collins, l’autrice di The Hunger Games, abbia mai letto ZONA X. Più probabilmente potrebbe aver preso qualche spunto da The Running Man e da un’altra manciata di libri/film distopici la cui storia gira intorno a un reality show cruento. In ogni caso, la sua storia i  questione ha sufficiente personalità da non dover temere eventuali paragoni (che sono il mio forte, come avrete notato dalle mie precedenti recensioni).
[SEGUE SINOSSI CON QUALCHE SPOILER]
In un futuro non troppo distante, il tirannico stato (non lo definirei totalitario) di Panem è sorto sulle rovine di quello che era il Nord America. Panem è costituito da una ricca Capitale, chiamata per l’appunto Capitol, e dodici distretti in condizioni di povertà più o meno marcate. È facile intendere che buona parte della ricchezza della Capitale è dovuta allo sfruttamento delle risorse dei dodici distretti. Settantacinque anni prima questi ultimi si erano ribellati al giogo dello stato centrale e dopo una guerra lunga ed estenuante erano stati sonoramente sconfitti. A perenne memoria dell’umiliazione subita allora – come accadde agli Ateniesi nei confronti di Minosse – ogni anno ciascun distretto deve fornire un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni, affinché partecipino a un reality show dal nome “Hunger Games”. I due fortunati vengono estratti a sorte in un’assemblea pubblica soprannominata “mietitura”. Lo spettacolo in questione, il più popolare di tutta Panem, si svolge all’interno di un’arena e prevede una lotta senza tregue e all’ultimo sangue tra i ventiquattro partecipanti. L’ultimo sopravvissuto verrà proclamato vincitore e potrà godere di una vita di agi e privilegi.
Katniss Everdeem è una ragazza di 16 anni del Distretto 12, il più povero di tutta Panem. Suo padre è morto durante un’esplosione all’interno delle miniere di carbone quando lei aveva solo undici anni, e da allora Katniss ha dovuto provvedere alla sopravvivenza di sua madre – caduta  in uno stato di depressione a causa della morte del marito – e della sorella più piccola, Primrose.
Insieme all’amico Gale Hawthorne, ogni giorno scavalca il recinto spinato che delimita il Distretto e si reca nei boschi a cacciare di selvaggina, bacche e funghi. Da suo padre ha ereditato la capacità di muoversi nel bosco con la grazia di un felino e una precisione chirurgica con l’arco. Grazie alla sua attività di bracconaggio, la sua famiglia è riuscita a condurre una vita dignitosa. Katniss ama sua sorella Prim sopra ogni cosa e farebbe di tutto per tenerla al sicuro. Così, quando alla sua prima “mietitura” (e che sfiga!) Prim viene sorteggiata, Katniss non ci pensa due volte a offrirsi volontaria al suo posto. Insieme a lei viene estratto Peeta Mellark, il figlio del fornaio. Anni addietro Peeta le aveva regalato di nascosto due forme di pane nel peggiore periodo di miseria dopo la morte del padre e per questo Katniss sente ancora di avere un debito nei suoi confronti. Un debito oneroso, se l’occasione di saldarlo si presenterà nell’Arena, dove la morte di uno può significare la vita dell’altro.
Nel viaggio in treno tra il distretto e la Capitale, i due ragazzi riescono a guadagnarsi la stima di Haymitch e, con l’aiuto di un’abile squadra di stilisti riescono a fare colpo durante il periodo di presentazione in preparazione ai Giochi. Katniss impressiona gli Organizzatori per il suo temperamento. Peeta dal canto suo, spiazza tutti, quando nell’intervista televisiva alla vigilia dell’ingresso nell’Arena lascia chiaramente a intendere di essere innamorato di Katniss da quando era bambino. Un dubbio sorge spontaneo: è una confessione genuina o solo una mossa per guadagnarsi la simpatia del pubblico e degli sponsor? La risposta – per quanto abbastanza palese sin dall’inizio – si avrà soltanto nell’arena dove ognuno dovrà lottare per la propria sopravvivenza.
[FINE SINOSSI]
Due particolarità saltano all’occhio dello stile usato da Suzanne Collins in The Hungers Games. La prima è la narrazione in prima persona (da punto di vista di Katniss), tutta svolta al tempo presente. La seconda è la totale assenza di soluzione di continuità nella narrazione: ogni capitolo ha inizio precisamente nell’istante in cui il precedente si è concluso. Questa scelta conferisce alla storia una struttura fluida, senza un reale momento di pausa per il lettore, che fatica a trovare il punto migliore per posare il libro e preferirebbe avere il tempo di mandarlo giù tutto d’un colpo, come una bella tequila con sale e limone.
La Collins gioca abilmente con il triangolo Katniss-Gale-Peeta e  sui sentimenti di Katniss nei confronti dei due ragazzi, senza per questo eccedere nello stucchevole sentimentalismo. The Hunger Games è prima di tutta una storia di lotta e sopravvivenza, con una robusta dose di azione e suspense. Non tutti i partecipanti sono malcapitati estratti per sorte avversa; nei Distretti più ricchi alcuni ragazzi vengono a tutti gli effetti addestrati per vincere  il torneo. Contro questi guerrieri in erba Katniss può solo opporre il suo naturale istinto di sopravvivenza, quello che le ha permesso di andare avanti dopo la morte di suo padre, la conoscenza della natura sviluppata nel corso degli anni e la sua abilità con l’arco. Ma sarà sufficiente per portare la pellaccia a casa?
Per gli amanti delle classificazioni, The Hunger Games può essere considerato fantascienza, riferendoci però a quel ramo della stessa più interessato agli aspetti sociali piuttosto che alle potenzialità del progresso scientifico-tecnologico. Il livello tecnologico di Panem è grossomodo paragonabile al nostro. La notevole eccezione è l’ingegneria genetica, utilizzata dalla Capitale ai tempi della guerra contro di Distretti, che a dato origini a nuove specie animali (e non solo) dette Muttations.  Panem è una tirannia fondata sull’oppressione dei 12 distretti, ma non per questo lo scenario è desolante come in altre visioni distopiche del futuro (per dirne una 1984). Il regime oppressivo non risparmia neppure gli stessi abitanti della Capitale, come Katniss intuisce dopo l’incontro con una Avox, una Capitolina punita con il taglio della lingua per aver tentato di fuggire nelle terre selvagge oltre i confini di Panem.
Proprio a causa della narrazione fluida a cui ho accennato in precedenza il romanzo termina nel momento più appropriato, lasciando al contempo ampio spazio a un potenziale seguito. Come prevedibile un solo seguito non poteva bastare a raccontare tutta la storia e così The Hunger Games ha dato origine a una (almeno per ora) trilogia. Nel primo libro, Collins si sofferma maggiormente sulla dinamica dei Giochi e sulle vicende dei personaggi, ma mi è stato dato a intendere gli aspetti più prettamente “politico-sociali” rivestiranno un ruolo più importante nei libri successivi.
A voler essere pignoli c’è breve momento di stanca poco prima dell’ultimo scontro e la buena suerte sembra strizzare più di un occhio alla nostra eroina, ma ci sentiamo di perdonare queste minime sbavature a fronte del risultato finale. Ci sono momenti di orrore e desolazione in The Hunger Games, ma l’autrice non permette ai suoi personaggi di crogiolarsi nella sofferenza…prima bisogna sopravvivere, al resto si pensa dopo. In altre mani, il romanzo sarebbe potuto venir fuori molto più cupo e deprimente – più adulto e realista, direbbero alcuni – e avrebbe così perso buona parte del suo fascino. Panem non sarà il migliore dei mondi,  ma al suo interno c’è molto da salvare, dai boschi del distretto 12 fino ai grattacieli della Capitale, ed è un posto dove al lettore farà piacere ritornare (il conto in banca della Collins mi dà ragione).
Siccome di Giochi della Fame si è parlato e come è ben noto l’appetito vien mangiando, cercherò di mettere al più presto le mani sul secondo tomo, Catching Fire, per vedere se sazierà quello spazietto lasciato libero dalla prima portata.

domenica 25 settembre 2011

Swan Song, ovvero il fratello minore dello Scorpione


Ho ordinato Swan Song su Amazon, perché incuriosito dai ripetuti paragoni con The Stand (in Italiano L’Ombra dello Scorpione) di Stephen King. Per la verità, sono venuto a conoscenza con il libro in questione proprio sulla pagina wikipedia di The Stand dove si legge testualmente: “Swan Song, a later work of post-apocalyptic fiction by Robert R. McCammon that owes much to The Stand.” Andando a spulciare le recensioni su Amazon e Goodreads ho letto una serie di commenti entusiasti, e mi sono convinto ad acquistare questo malloppo di 850 pagine scritte fitte fitte.
Il riferimento di wikipedia non mente: Swan Song presenta molti parallelismi con il romanzo di King. In entrambi i libri un disastro di proporzioni apocalittiche spazza via gli Stati Uniti (e ,di conseguenza, il mondo intero. Come potrebbe il mondo sopravvivere senza stars and stripes, d’altronde?). I pochi sopravvissuti si riorganizzano in piccole comunità o gruppi itineranti per sopravvivere al crollo della civiltà, e un’entità dai connotati diabolici si “risveglia” per prender il controllo di quanto rimane dell’Umanità. Senza dubbio vi sono riferimenti ad altre opere di genere post-apocalittico, ma, vista la mia scarsa esperienza in materia (riconducibili al filone ho letto solo The Road, I Am Legend e Dhalgren), in questa recensione ci sarà un abuso smodato di riferimenti a The Stand.
Togliamo subito ogni dubbio: non ho trovato il romanzo di McCammon all’altezza del suo illustre termine di paragone. Il conflitto nucleare che provoca la totale devastazione degli USA, per come si sviluppa, risulta meno convincente e meno attuale di una bella pandemia alla Captain Trips. In questo senso non aiuta il fatto che il libro sia stato scritto nel 1986 e che la minaccia di una guerra Stati Uniti – Unione Sovietica sia ormai attuale e plausibile quanto il ritorno di Napoleone da Sant’Elena per reclamare il trono di Francia.  Questo non è l’unico problema. La guerra stessa viene gestita male. Nessuno dei civili ne è al corrente o sembra prevederla (beh, forse negli Stati Uniti questo è normale). Il conflitto vero e proprio si risolve tutto nell’arco di una giornata (forse anche meno): una gragnuola di missili a testata nucleare si abbatte sull’America – e per par condicio anche su Russia ed Europa – rasandola al suolo. Dinamica possibile, ma non troppo probabile a mio modo di vedere; da questo punto di vista lo scatenarsi della pandemia in “The Stand”, con i vani tentativi di confinarla e occultarne la portata da parte dell’esercito era risultata molto più verosimile.
In Swan Song i sopravvissuti – per lo più orribilmente sfigurati – si ritrovano sprofondati in una realtà da incubo: la flora è stata completamente spazzata via, una coltre di detriti e cenere avvolge l’atmosfera terrestre oscurando il sole e provocando un lungo inverno. Una situazione piuttosto tragica, eppure la gente riesce a sopravvivere per sette anni (!) in queste condizioni: quando c’è bisogno, legname e cibo in scatola sono sempre a portata di mano.
La storia ruota attorno a tre nuclei principali di personaggi. Il primo è composto da Swan, una ragazzina con il dono innato di far crescere fiori e piante (anche senza luce!), e Josh, un gigantesco nero con un passato da wrestler alle spalle. Il secondo è incentrato attorno alla figura di Sister, una donna dal passato drammatico che si risveglia a nuova vita quando, tra le rovine di New York, trova un misterioso anello di vetro e gioielli in grado di trasmetterle visioni. Del terzo fanno parte il colonnello Macklin, un reduce del Vietnam in preda alla tipica crisi di mezz’età, e Roland Cronninger, un ragazzo dall’aspetto sfigato ma dalla mente lesta con una passione per i computer (leggasi: nerd occhialuto con pulsioni sociopatiche). Per conto suo invece si muove l’Uomo dall’Occhio Scarlatto – aka il “Randall Flagg” di Swan Song – un messaggero di morte e disperazione venuto a danzare tra i resti fumanti della civiltà ridotta in cenere.
La caratterizzazione dei personaggi, sebbene non malvagia, manca di profondità. Anche in questo senso il paragone con King è impietoso per il malcapitato McCammon: i personaggi di The Stand avevano personalità autentiche e ben definite che li faceva emergere dalle pagine del libro. Buoni o cattivi che fossero, il lettore era trascinato dalle loro peripezie e scalpitava per scoprire quale destino li attendeva nella pagina seguente. Per le prime 600 pagine o giù di lì, non sono riuscito ad appassionarmi ai protagonisti di Swan Song e alle loro vicende. In un caso particolare, sono arrivato a detestare un personaggio, Sister, una donna così decisa a perseguire i propri scopi da non farsi troppi scrupoli nei confronti degli altri, soprattutto se aveva modo di usarli a proprio vantaggio (il trucco le riesce con Sheila Fontana, una prostituta del gruppo di Maclin). Josh, dal canto suo, è un bravissimo cristiano ma anche un completo idiota, e in un paio di occasioni riesce a cacciare se stesso e la malcapitata Swan – che in teoria dovrebbe proteggere – in un mare di guai facilmente evitabili.
L’appetibilità dei personaggi non risulta migliorata dalle crescite fibrose che, dopo la catastrofe nucleare, gli spuntano in volto. Queste specie di porri si espandono con il passare degli anni fino a coprire tutta la testa, lasciando libere solo delle piccole fessure per gli occhi e la bocca.
Non ho gradito poi l’abuso di elementi magici e soprannaturali – il potere di Swan con le piante, un cadavere che si rialza per raccomandare a Josh di proteggere Swan, l’anello trovato da Sister, un ago di cristallo che cicatrizza la ferita di un’operazione a torace aperto (!) – per i quali non viene presentata nessuna giustificazione credibile. Esistono semplicemente perché sono necessari alla storia, ma a mio modo di vedere stonano con un’ambientazione prettamente post-apocalittica. Anche King ne aveva fatto uso in The Stand, ma in maniera meno vistosa, coerente con lo spirito della storia.
In più di un’occasione ho provato un senso di fastidio verso e quanto stavo leggendo e ho dovuto resistere alla tentazione di posare il libro e prenderne un altro dalla mia voluminosa pila da leggere. Alla fine ho tenuto duro e la mia fatica è stata (almeno in parte) ripagata. Nell’ultima parte del libro, quando finalmente gruppi che si inseguono da anni si raggiungono e le schifose crescite fibrose vanno letteralmente in frantumi, la storia imbocca i binari giusti e il lettore si riscuote da quel fastidioso senso di torpore in cui era sprofondato.
Dopo essere raggiunta da Sister e il suo gruppo, Swan sboccia a nuova vita, proprio come il brutto anatroccolo della fiaba. Prende il mano il proprio destino e quello delle persone che le stanno intorno con un tempismo perfetto, perché i cattivi si profilano all’orizzonte. Il suo primo incontro con l’uomo dall’occhio scarlatto è uno dei punti migliori del libro, uno scontro di volontà gestito e risolto dall’autore in maniera ineccepibile. Da quel punto in avanti la narrazione procede a passo spedito verso il confronto finale, in cui ogni tassello va al suo posto in maniera fin troppo naturale.
[SPOILER]
Perfino l’odiata Sister risulta quasi simpatica nell’ultimo capitolo, quando finalmente tira le cuoia.
Il libro ci lascia con un messaggio di speranza, molto in linea con lo spirito ottimista degli anni ottanta. Il sole squarcia le nubi cineree dopo sette anni di tenebre e inverno; la Terra può ritornare alla vita, anche grazie a un piccolo aiuto da parte di Swan.
[FINE SPOILER]

Nel complesso, il finale positivo non è sufficiente a risollevare le sorti di un libro senza troppa personalità. Consigliato solo agli appassionati del genere.

martedì 20 settembre 2011

The Darkness That Comes Before e la bancarotta nichilista del Fantasy Contemporaneo


Lo scorso febbraio, Leo Grin aveva pubblicato questo articolo dal titolo The Bankrupt Nihilism of Our Fallen Fantasists, nel quale aveva espresso un personale e accalorato commento sulla scena fantasy contemporanea, confrontandola con l’opera di quelli che (peraltro giustamente) considera i due padri del genere: J.R.R Tolkien e R.E. Howard (e se costoro hanno bisogno di un’introduzione, allora forse vi trovate nel posto sbagliato: il sito che cercavate è questo).
Quanto è segue il succo del messaggio di Grin, leggermente rielaborato dal sottoscritto. “Dalle pagine dei due maestri, con la loro ricchezza tematica e prosa evocativa, riecheggiano miti e leggende del passato, latori di temi e valori senza tempo. Per contro, scrittori moderni quali Joe Abercrombie (The Firs Law Trilogy), Steven Erikson (Malazan Book of the Fallen) e George R.R. Martin (A Song of Ice and Fire), con il pretesto di portare una ventata di freschezza nel genere, stravolgono – a tutti gli effetti capovolgono – questi temi e valori, proponendoci realtà brutali e deprimenti, in cui si muovono personaggi dalla morale ambigua che, qualora messi alla prova, si dimostrano capaci di qualsiasi bassezza.”
Gli autori moderni vengono elogiati da pubblico e critica per il maggiore realismo dei loro mondi (concetto su cui torneremo), e in particolare per esporre senza vena poetica la follia, gli orrori e le passioni della guerra. Grin rifiuta categoricamente questa visione e nel suo j’accuse risponde (grossomodo) come segue: “Tolkien aveva iniziato a comporre il suo legendarium nelle trincee della Prima Guerra Mondiale mentre i suoi migliori amici venivano ad uno ad uno falcidiati dal fuoco nemico e forse ne sapeva qualcosa di più sulla guerra rispetto a questi signori che, per lo più, i conflitti li hanno solo letti sui libri o visti seduti davanti alla televisione.”
Al tempo della sua pubblicazione, l’articolo in questione aveva sollevato un certo polverone (o, più propriamente, un polverino) nel folto sottobosco del genere. Critici, autori e semplici appassionati avevano espresso la propria opinione, in difesa delle opere incriminate o a sostegno del nostro paladino della tradizione.

Perché questo lungo preambolo di folklore? Il romanzo d’esordio del canadese R.Scott Bakker, The Darkness That Comes Before, primo libro della trilogia The Prince of Nothing, è a buon diritto tra gli esponenti di punta del filone aspramente deplorato da Grin. Al contempo è anche l’emblematica prova che la distanza tra i “maestri” e “gli autori iconoclasti” è molto più piccola di quanto non sembri in apparenza.
Ecco, nelle parole dell’autore una breve introduzione all’ambientazione da lui creata, il mondo di Eärwa:
[INIZIO PICCOLO SPOILER]
“La Prima Apocalisse ha distrutto le grandi nazioni Norsirai del Nord. Solo a sud, le nazioni Ketyai dei Tre Mari, sono sopravvissute all’assalto del Non-Dio, Mog-Pharau, e della sua Consulta di generali e maghi. Gli anni sono passati e gli uomini dei Tre Mari hanno dimenticato, come gli uomini inevitabilmente fanno, gli orrori subiti dai loro antenati.
Imperi sono sorti e imperi sono crollati: Kyraneas, Shir, Cenei. L’ultimo profeta, Inri Sejenus, ha reinterpretato la Zanna, il più sacro degli artefatti, e in pochi secoli la fede dell’Inrithismo, organizzata e amministrata dai Mille Templi e dal loro leader spirituale, lo Shriah, arrivò a dominare l’intero Tre Mari. Le grandi scuole di stregoneria – quali le Spire Scarlatte, lo Shaik Imperiale e i Mysunsai, sorsero in risposta alle persecuzioni da parte degli Inrithi contro i Pochi, coloro che possiedono l’abilità di vedere e compiere stregonerie. Usando le Chorae, antichi artefatti che rendono i loro portatori immuni alla magia, gli Inrithi lottarono contro le Scuole tentando, senza successo, di purificare i Tre Mari.
Poi Fane, il Profeta del Dio Solitario, unì i Kianeni, i popoli dei deserti a sud-est dei Tre Mari e dichiarò guerra contro la Zanna e i Mille Templi. Dopo secoli e diverse jihad, i Fanim e i loro preti-stregoni senz’occhi, i Cishaurin, conquistarono quasi tutta la parte occidentale di Tre Mari, compresa la città santa di Shimeh, il luogo di nascita di Inri Sejenus. Solo i resti moribondi dell’Impero Nansur continuano a resistere (ai Fanim).
Adesso guerre e conflitti regnano nel Sud. Le due grandi fedi, Inrithismo e Fanimria (sic!) combattono senza posa, sebbene commerci e pellegrinaggi siano tollerati quando commercialmente conveniente. Le grandi famiglie e le nazioni competono per il dominio mercantile e militare. le Scuole grandi e piccole, bisticciano e cospirano, in particolare contro i misteriosi Cishaurin, la cui stregoneria non può essere distinta dal tessuto del Mondo. I Mille Templi perseguono ambizioni terrene sotto il comando di Shriah deboli e corrotti.
La Prima Apocalisse è diventata poco più di una leggenda. La Consulta, sopravvissuta alla morte di Mog-Pharau, è svanita nel mito, qualcosa che le vecchie raccontano ai bambini. Dopo duemila anni solo gli Studiosi del Mandato, che rivivono l’Apocalisse ogni notte in sogno attraverso gli occhi del loro antico fondatore Seswatha, ricordano gli orrori e le profezie del ritorno del Non-Dio. Sebbene i potenti e i sapienti li reputino dei buffoni, la loro capacità di utilizzare la Gnosi, la stregoneria dell’Antico Nord, incute rispetto e invidia mortale. Guidati dai loro incubi, i Mandati vagano per i labirinti del potere, perlustrando Tre Mari alla ricerca del loro antico e implacabile nemico – la Consulta.
E come sempre, non trovano nulla. ”
[FINE PICCOLO SPOILER]
Beh, se si sopravvive alla sequela di nomi impronunciabili sciorinata in questa presentazione, la prima impressione è di già sentito. Un antico nemico che minaccia di ritornare dopo la sua caduta in un mitico passato, unita a un’ambientazione fin troppo reminescenze delle crociate – le equazioni Inirthi=Cristiani, Mille Templi=Chiesa Cattolica, Shriah=Papa, Fainim=Mussulmani, Impero Nansur=Impero Bizantino balzano all’occhio – non sembra promettere il massimo dell’originalità. Ma, come spero di dimostrarvi, l’innovazione c’è e va ricercata altrove.

Bakker, laureato in Filososofia, si propone di iniettare una forte dose della materia dei suoi studi universitari all’interno della sua opera.
Anasûrimbor Kellhus (salute!), il protagonista – se tale si può definire – appartiene ai Dûnyain, un gruppo monastico che si è ritirato dal mondo al tempo dell’Apocalisse e da allora ha rinnegato lo studio della Storia, dedicandosi alla ricerca della Verità. Per fare ciò sono addestrati a conoscere e controllare “l’oscurità che precede” il pensiero, ossia il turbinio di irrazionalità, paure ed emozioni che guidano le azioni dell’Uomo. Kellhus, convocato attraverso il sogno da suo padre alla città santa di Shimeh, abbandona l’isolamento del monastero e “scende” nel mondo degli uomini a 33 anni, curiosa e non troppo casuale analogia con lo Zarathustra di Nietzche. Kellhus è a tutti gli effetti un Übermensch Nietzschiano: anni di studi monastici gli hanno conferito la capacità di leggere i volti delle altre persone come un libro aperto e intuire quali oscure forze muovono le loro azioni. Il nostro “protagonista” non si fa scrupoli a usare questa conoscenza a suo vantaggio, per piegare tutti gli altri, uno per uno, al suo volere.

[ SEGUE BREVE E INCOMPLETA TRAMA DEL ROMANZO]
Nello stesso anno in cui Kellhus lascia il suo monastero nelle desolate terre del Nord alla volta di Shimeh, nei Tre Mari viene proclamata una Guerra Santa da parte di Maithanet, il neoeletto Shriah le cui origini sono avvolte nel mistero, contro i Fainim. Scopo della Guerra Santa è proprio la riconquista di Shimeh.
Drusas Achamian, mago del Mandato tormentato da dubbi e incertezze, viene inviato dai suoi superiori a spiare i preparativi della Guerra Santa e a cercare come sempre un eventuale coinvolgimento della chimerica Consulta. Durante la missione Achamian ritrova Emenet una prostituta di cui era stato innamorato in passato, fa alcune scoperte sorprendenti su Maithanet e perde il suo migliore infiltrato nei Mille Templi . Sospinti dai venti di guerra, lui ed Esmenet si ritrovano entrambi diretti verso la capitale dell’impero Nansur dove avrà luogo l’adunata dei crociati.
Nel frattempo l’Imperatore complotta  per porre suo nipote, un brillante generale che ha fatto a pezzi le orde barbare del Nord-ovest, alla guida dell’esercito crociato. Il suo scopo è strumentalizzare la guerra santa per riconquistare i territori perduti e riportare l’impero ai fasti nel passato.
A nord, Cnaiür (e risalute!) un barbaro dalla ferocia e odio implacabile, dopo la sconfitta della sua gente, è rimasto con una sola ragione di vita: vendicarsi dell’uomo misterioso che, in gioventù, lo convinse a rinnegare e uccidere suo padre. Quando si imbatte in Kellhus, e riconosce in lui il figlio del suo antico nemico, acconsente ad aiutarlo a raggiungere Shimeh, nella speranza di ottenere finalmente l’agognata vendetta. Ben presto scopre con orrore che Kellhus è un manipolatore abile quanto il padre. Per tutto il viaggio in compagnia del Dûnyain, Cnaiür non potrà mai abbassare la guarda, per tema che il monaco gli rubi l’anima e lo manipoli come un burattino.
I due uomini, si dirigono verso Tre Mari e l’imminente Guerra Santa, per unirsi ad essa per raggiungere la loro meta: Shimeh.
[FINE TRAMA]

La storia si sviluppa con l’ormai consueta serie di misteri, intrighi e macchinazioni politiche, rese popolari nel fantasy da Jordan e (soprattutto) da Martin. Sebbene non possa competere a livello di complessità e numero di personaggi con il buon GeorgeRR (e chi può!), Bakker riesce a conferire egualmente sufficiente profondità al suo mondo e alla sua storia.
Le maggior parte delle vicende viene vista dalla mente dei personaggi, anzi sarebbe più corretto dire che si svolge nella mente dei personaggi. Bakker è capace di spendere diverse righe tra due linee di dialogo per esplorare i pensieri del suo Punto di Vista. Questa scelta, originale in un genere non troppo votato all’introspezione, non aiuta però a velocizzare il dipanarsi degli eventi, e per più di un lettore potrebbe risultare stucchevole. Personalmente l’ho trovato uno degli aspetti più godibili del libro.
In certe situazioni, gli eventi vengono riferiti in maniera confusa e frammentata, in accordo con la situazione emotiva del POV; altrove, diventa difficile stabilire cosa sia reale e cosa sia prodotto della mente e dei desideri del personaggio. È il vecchio trucco del narratore inaffidabile, usato con la dovuta maestria.
La mia parte preferita è stata il viaggio di Kellhus e Cnaiür nelle steppe alla volta di Tre Mari; qui Kellhus espone (alcuni) fondamenti della sua scuola e si adopera senza posa per irretire la mente del barbaro. Questi, già ingannato da giovane dal padre di Kellhus, cerca in tutti i modi di resistere alle manipolazioni del monaco. In passato molti autori sono riusciti ad irritarmi oltre misura quando il loro protagonista diventava così cazzuto da essere pressoché onnipotente. Esempi celebri sono Rand al’Thor de La Ruota del Tempo e Richard Rahl de La Spada della Verità, senza ombra di dubbio i due personaggi più insopportabili concepiti nell’ambito della letteratura fantasy. Bakker, dal canto suo, riesce a rappresentare il monaco Dûnyain in maniera convincente (almeno a mio parere), dando buone argomentazioni a giustificazione delle sue capacità. La sua spietata razionalità, il fatto che il suo vero scopo sia ignoto, unito alla profezia del “ritorno di un Anasûrimbor al tempo della Seconda Apocalisse” conferiscono mistero e timore attorno alla sua figura. Più che il possibile salvatore del mondo, sembra essere un freddo calcolatore, un bastardo sociopatico in grado di non far trasparire nulla del suo vero Sé.
Gli altri personaggi, moralmente parlando, non sono migliori. E qui arriviamo a una delle note dolenti del libro, oltre che a un punto di contatto con l’articolo di Grin: l’innegabile bastardaggine e assenza di morale di tutti personaggi. Per il lettore risulta molto difficile provare qualsiasi sentimento affine alla simpatia nei loro confronti, con la notabile eccezione (almeno per ora) di Achamian il mago, che però mi ha dato l’impressione di avere il marchio dello sfigato disegnato con un pennarello indelebile sulla fronte.
Tutti gli altri sono bastardi inveterati (nel caso degli uomini) o insaziabili meretrici (nel caso delle donne, puttane o concubine di professione); per inseguire i loro scopi (e le proprie perversioni) non perdono occasione di calpestare sotto i loro piedi qualsiasi codice morale e raggiungere nuovi livelli di bassezza. Va pur dato atto all’autore che i “cattivi”, per quello che si è visto ora, sono talmente abietti e fuori di testa da ridimensionare l’amoralità dei presunti “buoni”.
Da parte mia, preferisco l’assenza di morale che l’adozione di un codice etico deplorevole e distorto allo  scopo di giustificare le azioni dei propri personaggi (e in questo torniamo a La Spada della Verità, uno dei punti più bassi del genere).
Ho sentito diversi fan di Bakker (e anche di Steven Erikson, per quanto concerne la sua opera) sostenere che la visione bieca e cinica del mondo e degli uomini dipinta dall’autore conferisca un maggiore “realismo” alla serie. Può darsi. Da parte mia, pur sapendo quanto bieco e spietato sia il mondo in cui viviamo, devo ammettere che tra le mie conoscenze la percentuale di stupratori, assassini e prostitute è sensibilmente più bassa di quella rappresentata tra i personaggi di The Darkness That Comes Before. Con questo non voglio delegittimare la scelta di dipingere il proprio mondo a tinte fosche, ma non userei la foglia di fico del “realismo” per giustificarla. (Peraltro ci sarebbe tutta una discussione da fare sulla reale necessità di essere realisti in un romanzo fantasy, ma questa ve la risparmio per un’altra volta.)

Come dicevo in precedenza, la distanza tra gli autori della Vecchia Scuola e il buon Bakker è più breve di quanto Leo Grin voglia farci intendere. Oh, non mi fraintendete: molto probabilmente Tolkien sarebbe inorridito leggendo questa roba (se non altro per la cacofonia dei nomi). Ma credo avrebbe apprezzato l’immaginazione e l’originalità dell’autore, la cura minuziosa dedicata nel dipingere l’affresco di Eärwa (il cui nome riecheggia peraltro il tolkeniano Eä). La dedizione di Bakker verso il maestro si palesa in più di un aspetto – il presunto ritorno di un Signore Oscuro apparentemente sconfitto in precedenza (anche se i dettagli e la realtà dell’avvenimento restano tutti da appurare), la presenza di specie, Nonuomini e Sranc, per cui possono essere tratti diversi parallelismi con Elfi e Orchi – eppure non si tratta come spesso accade semplice riproposizione, ma una rilettura personale in accordo con una Weltanschauung bieca e spietata, in cui (da quanto emerso finora) si rifiuta qualsiasi morale universale e preconcetta.
Sebbene la mia attitudine mi porti a preferire ambientazioni più solari e nonostante qualche minore difetto comunque comprensibile nell’opera di un esordiente, il libro mi è piaciuto molto, tant’è che ho ordinato tutti gli altri volumi già usciti (per la cronaca sono quattro: due concludono la trilogia The Prince of Nothing, i successivi ne iniziano una seconda, intitolata The Aspect Emperor). Il libro è consigliato agli appassionati di worldbuilding e intrighi politici, purché non si spaventino davanti a una narrazione più introspettiva e a tratti disturbante.

P.S. Nonostante i nomi si ingarbuglino spesso e volentieri nel palato – anche grazie a un uso smodato uso di dieresi e accenti circonflessi – merita una menzione speciale il nome Golgotterath, la perfetta sintesi di Golgotha e Gorgoroth, con in aggiunta un pizzico di Gomorrah.

venerdì 2 settembre 2011

A Dance with Dragons: un'opinione


Ho finito di leggere A Dance With Dragons una decina di giorni fa; quale occasione migliore per inaugurare un non-blog di non recensioni?
In primis, mi permetto un commento sul titolo: lo reputo fuorviante, probabilmente “I Fantastici Viaggi per fiumi e per mare di Yollo (alias Hugor Hill)” sarebbe stato più appropriato.

Riassunto delle puntate precedenti:
Dopo aver sfornato tre libri che sfiorano il capolavoro (particolare menzione per il terzo A Storm Of Swords, ingiustamente privato del  premio Hugo nel 2001 dal pur bello Harry Potter and the Goblet of Fire), lo zio si è scoperto intrappolato all’interno del labirinto da lui stesso creato. La sua idea originaria – un “salto in avanti”di 5-6 anni tra la prima e la seconda trilogia per dare il tempo ai suoi personaggi di crescere – non poteva più funzionare, perché alla fine di A Storm Of Swords erano troppi i fili rimasti appesi per poter fare semplicemente finta di niente.
La soluzione scelta è stata quindi proseguire da dove ci si era fermati con il terzo libro, introducendo al contempo una pletora di nuovi punti di vista (POV, come dicono gli Anglamerofili), alcuni dei quali necessari alla “discesa in campo” di fazioni fino a quel momento rimaste un poco ai margini della storia principale (gli Uomini delle Isole di Ferro, i Dorniani).
Con il moltiplicarsi dei punti di vista, il libro di conseguenza si è gonfiato a dismisura, forzando Martin a dividerlo in due parti, A Feast for Crows, uscito nel 2005, e A Dance with Dragons attuale oggetto delle mie esternazioni.

Il nuovo libro scioglie solo in parte i dubbi sollevati dal suo predecessore. A Dance with Dragons, proprio come A Feast For Crows si muove con la letargica lentezza di un bradipo e non molto aiuta il ritorno dei nostri personaggi preferiti (per chi avese vissuto su Plutone fono a ieri mi riferisco a Jon Snow, Daenerys e Tyrion). I magnifici Tre fanno la parte del leone, spartendosi equamente metà del libro (35 capitoli su 70 o giù di lì), eppure sono proprio le loro vicissitudini a rallentare lo svolgersi degli eventi. Jon e Dany, invischiati nelle sempre più opprimenti beghe politiche dovute al loro ruolo, passano intere pagine a rimuginare su come procedere e in buona sostanza combinano ben poco. Tyrion si muove come una trottola (una trottola in slow motion, ma pur sempre una trottola) incontra parecchia gente interessante, eppure è proprio la sua storia ad avermi convinto meno di tutte.
[INIZIO PICCOLO SPOILER] 
Ma come, Varys lo spedisce come un pacco da Illyrio, questi lo rende parte della loro “piccola” cospirazione, e lui per neppure un momento è stupito o si pone domande al riguardo? Cioè, Varys è stato un certo senso il suo principale appoggio quando luii era la Mano del Re, e al contempo tramava di nascosto il ritorno dei Targaryen? Tutto questo non turba per nulla in nostro nano mezzonano. In secondo luogo, la storia del giovane Griff mi ha convinto ben poco, ma anche su quella Tyrion non si sofferma troppo a riflettere. E perché dovrebbe quando può fantasticare pagine e pagine su Tysha, il suo amore perduto, e sull’ultima celebre frase di suo padre, “Wherever whores go”(Senza fare menzione di una certa insopportabile nana e dei suoi animaletti da avanspettacolo)?
[FINE PICCOLO SPOILER]
Tutto è perduto quindi? Il vecchio Martino ha perso la bussola una volta per tutte? Niente affatto, perché nonostante la lentezza generale, le interminabili descrizioni di cibo e scopate, la ripetizione fino alla nausea di frasi quali “Words are wind” e “Said the crow to the raven”(questa in realtà è usata meno che in passato), le innumerevoli volte in cui il corvo di Mormont gracchia "corn" piuttosto che "snow", nonostante tutto ciò, il buon GiorgioRR rimane ancora una spanna sopra il 99% degli attuali scrittori di fantasy, soprattutto per la sua eccezionale caratterizzazione dei personaggi e per la capacità di evocare con le sue parole immagini vivide del mondo che descrive. Città e campagne, rovine e foreste  di Westeros ed Essos, e soprattutto i loro abitanti acquistano una profondità rara nella letteratura di questo genere, perché come è stato scritto su questo articolo pubblicato su Black Gate, la prosa Martin ha la capacità di stimolare tutti e cinque in sensi, di immergere il lettore nel suo mondo, di rendere reale e vivida la vita di tutti i giorni ad Approdo del Re, come a Mereen, sulla Barriera come su una barca placidamente in viaggio lungo il fiume Rhoyne.
Come dicevamo i presunti "tre protagonisti" non convincono, almeno per 3/4 della storia. E allora ecco che sono alcuni tra i personaggi minori, quelli con un numero ridotto di capitoli, a colpire maggiormente nel segno. Ho trovato particolarmente convincente la storia di “Reek” (indovina chi sarà mai?), la manciata di capitoli dedicati a Bran, e quella di un vecchio personaggio (sia anagraficamente sia come anzianità nella storia), che solo adesso assurge a POV. Oltre a questi, nell’ultima parte del libro la storia si riallinea e supera il punto in cui A Feast for Crows si era fermato. Così  rivediamo con piacere (tra gli altri) Arya e Cersei (in AFfC non la potevo soffrire), entrambe con due capitoli a testa che contribuiscono a portare avanti in maniera soddisfacente le loro vicissitudini da come le avevamo lasciate su A Feast for Crows.  Altri personaggi hanno capitoli meno salienti, ma comunque godibili.
È proprio sul finale del libro che Martin sembra improvvisamente risvegliarsi da un torpore durato una decina d’anni e inizia una buona volta a tirare le fila. Dopo tanto discutere, i personaggi iniziano ad agire e le nubi nere che da lungo tempo incombevano all’orizzonte sembrano pronte a scatenare la tempesta. Leggendo gli ultimi capitoli provo di nuovo quel senso di magia che tanto mi aveva incantato nei primi tre libri; finalmente, dopo lungo penare e peregrinare, le varie pedine hanno raggiunto la posizione desiderata e le conflagrazioni anticipate dall’inizio del libro possono avere inizio (non la Grande Conflagrazione Finale, per quella ci sarà da attendere ancora qualche libro alcune migliaia di leghe di viaggio). E proprio sul più bello, quando la storia inizia a crescere (si impenna azzarderei a dire) e il lettore sbava per scoprire come va a finire e quale sarà la sorte dei suoi beniamini, il buon GeorgeRR conclude il libro lasciando la bellezza di 4-5 situazioni da capogiro in sospeso . Scelta di mercato, semplice necessità dovuta alle dimensioni del libro o decisione già pianificata in precedenza? Ai posteri l’ardua sentenza; io, dal canto mio mi trovo con la prospettiva di aspettare altri 5 anni a tormentarmi di domande, in attesa di scoprire le sorti dei miei personaggi preferiti e non.

In conclusione, il libro mi è piaciuto o no? La risposta è un sì tendente al nì, o forse un nì tendente al sì. Non è neanche lontanamente paragonabile ai 3 libri storici, ma in ogni caso, rimane un libro scritto con classe (palati più fini forse direbbero mestiere) e la conclusione ci lascia ben sperare per il futuro. Non accade quello che mi sarei aspettato (non che sapessi davvero cosa aspettarmi), ma a libro concluso credo che per lo più la storia stia procedendo nella direzione giusta. Il tasto dolente resta il passo da lumaca: in questo senso, come molti prima di me hanno evidenziato, la Jordanizzazione (non nel senso delle matrici) di Martin è un dato di fatto, un evento orami difficilmente controvertibile.
Si ha una singola risposta alla lunga lista di interrogativi disseminati nei libri precedenti? No!
Si aggiungono nuove domande e ulteriori personaggi e POV? Certo che sì, con ulteriore complicazione della storia. Ci sono ben 4 nuovi POV in questo libro. A questo punto in The Winds Of Winter Martin si ritroverà a dover gestire 20 punti di vista sparsi tra Westeros ed Essos. Riuscirà a tirare le fila della storia in 2 soli libri, anche se della lunghezza di 1000 pagine ciascuno? Non lo credo possibile, anzi perfino l’ipotesi di 3 libri mi pare assai ottimistica.
Lettori armatevi di pazienza e (soprattutto di fede), pregate e accendete ceri affinché una lunga e prolifica vita sia garantita al nostro sosia preferito di Babbo Natale.

Ho scritto troppo per i miei gusti e poco e niente di quello che volevo davvero dire, magari la prossima “non recensione” sarà più sul pezzo.

A dopo.